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Gli attori mangiano per finta, ma qualche volta anche per davvero

Enzo Latronico ha raccontato del cibo nel cinema sulla scia del libro da lui pubblicato “Gli attori mangiano per finta” nel ciclo di videoconferenze sull’alimentazione intitolato “Carte da Cucina”

Ricordate la celebre scena del film “Lo chiamavano Trinità” nella quale Terence Hill “spazzola via” con gagliardo appetito un intero tegame di fagioli in umido, pane compreso? Ebbene per girarla con realismo il protagonista ha digiunato per un intero giorno. E’ un curioso particolare raccontato dal giornalista Enzo Latronico,

autore di libri, sceneggiatore e appassionato studioso della cinematografia, intervenuto per il ciclo di videoconferenze sull’alimentazione intitolato “Carte da Cucina”, organizzato dall'ufficio Attività Socio-ricreative del Comune di Piacenza per la Terza Età, grazie alla collaborazione con l'Archivio di Stato guidato dalla direttrice Anna Riva. Cinque appuntamenti a cadenza settimanale che tratteranno del cibo declinato su vari temi molto differenti tra loro, dalla cultura, alla storia, fino all’utilizzo delle erbe.

A inaugurare la rassegna online, “Il cinema da mangiare”, intervento in cui Latronico, con un garbato e divertente umoristico, ha raccontato del cibo nel cinemaEnzo Latronico-2 sulla scia del libro da lui pubblicato “Gli attori mangiano per finta” è un interessante saggio in cui viene sviluppata una ponderata riflessione sul rapporto tra il cinema italiano, dal Dopoguerra in poi.

Latronico, attraverso una carrellata ricca e colorata di episodi indimenticabili, passa dai maccheroni di Sordi di “Un americano a Roma”, ai commensali de “La grande abbuffata”, fino alla frittata di fantozziana memoria. Tutto ciò diventa una vera e propria analisi sociale di ciò che il “mangiare” ha rappresentato per il nostro Paese che si specchia nel cinema.

«In pratica - ha detto - il cibo recita creando situazioni, ma è anche usato come vendetta (Sordi quando va alla Biennale di Venezia e fa una vera e propria lotta di classe con salsiccia e fagioli) o tortura (come nella Mazzetta con Manfredi). Insomma in base all’epoca e al genere cinematografico, il cibo assume un significato diverso e sovente diventa addirittura un protagonista. Pensiamo a “Miseria e nobiltà” con Totò per arrivare alla Grande bellezza».

Il cibo nel cinema è stato guardato e raccontato quasi sempre con una specie di sacralità religiosa. Se negli anni ‘50 a fatica si stava uscendo da una grave crisi dovuta alla guerra, dopo il Neorealismo, la Commedia all’italiana racconta la fame celiando, ma sovente lasciando l’amaro in bocca, un segno distintivo graffiante tipico della commedia anni 60 e 70, il periodo più glorioso del nostro cinema. «Ma diventa una vera e propria denuncia sociale che ci lascia l’amaro in bocca». Ma può significare pure raffinatezza come quando l’elegantissimo Vittorio De Sica che dà lezioni di galateo ad Alberto Sordi ne Il conte Max. «È una scena di un’eleganza senza pari se pensiamo che il tutto si svolge davanti ad una semplice cotoletta impanata».

Negli successivi invece il cibo assume tutt’altro significato,non sottolinea più la fame ma l’opulenza e l’ostentazione, spesso lo spreco, ed è sempre un elemento interessante. Oggi potrebbe addirittura diventare, come si può vedere in un film come “La grande bellezza”, un elemento disturbante e di satira.

Ma il cibo viene usato pure per suicidarsi come ne “La grande abbuffata”, mentre in “Amici miei”, nella scena dove gli amici fanno la conta per scegliere chi deve pagare per lo squattrinato Conte Mascetti è usato per sottolineare pochezza intellettuale. «Dunque è importante, quando si guarda un film saper leggere tra le righe e cogliere le differenze senza fermarsi all’apparenza: leggero sovente non vuol dire superficiale e credo sia proprio questa la differenza fondamentale».

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