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Venerdì, 1 Dicembre 2023
Attualità Morfasso

«I miei ricordi della festa di Santa Franca»

Gian Francesco Tiramani apre il cassetto dei ricordi sulla festa al monte

Per l’ennesima volta mi trovo qui, nel silenzio assordante del monte Santa Franca, a respirare aria che non è solo aria e mi accorgo che i decenni trascorsi prendono le sembianze del grigio dei capelli o di qualche affanno in più nell’avventurarsi nei boschi ma non hanno la forza di fiaccare il ricordo di un sapore indelebile della mia giovinezza che si rinnova ogni volta che questo luogo santifica il suo perenne potere evocativo. S. Franca è stata una donna significativa ed originale della nostra storia e del nostro credere ma diviene irrimediabilmente anche un luogo, una ricorrenza, un rito che va oltre il Sacro e che ancora oggi fa socchiudere gli occhi per forzare (neppure troppo) alla memoria immagini, volti, suoni, profumi…

Sul calendario non scritto accadeva l’ultima domenica d’agosto (successivamente con replica alla prima visto che il maltempo sembrava voler infierire oltremisura): l’occasione di qualcosa di speciale che senza dubbio andava ben oltre il solo aspetto religioso, o forse gli dava un senso più compiuto con sfumature e ritualità decisamente pagane. Non è facile, oggi, tentare di marcare un confine tra il profondo senso di Fede che permeava i pellegrini di allora e la ritualità di contorno e farlo rischierebbe, comunque, di essere profondamente ingiusto.

Erano gli anni ’60 e ’70 e lo schema (la sceneggiatura) della festa di S. Franca era ormai consolidato e condiviso da tutti. Ho qui davanti, perfettamente a fuoco come impressi a fuoco nella mia memoria, i fotogrammi dei preparativi della salita al S. Franca e del loro svolgersi con quei segni costanti ed inequivocabili, testimoni eloquenti dell’essere della nostra gente, nei gesti come nelle parole. Il giorno precedente era dedicato alla preparazione del pasto che sarebbe poi stato consumato sotto gli alberi a fianco del sacello, senza che quasi nessuno conoscesse l’espressione di “picnic”. Sicuramente qualche variante tra una famiglia e l’altra (si, parliamo di ‘famiglie’ straordinariamente coese e riconoscibili in quell’occasione) ma era certo trovare innanzitutto la torta di patate locale tagliata a pezzetti, sistemati poi con cura all’interno delle scatole da scarpe.

Il sabato le donne erano occupate a preparare l’impasto e l’impegno si prendeva tutta la giornata perché non tutte le famiglie potevano disporre del forno a legna e così ci si metteva in fila per infornare a turno a casa di coloro che ne erano dotati non mancando, a fine cottura, di assaggiare le diverse versioni delle varie famiglie; mio compito era quello di tracciare le linee parallele sulla superficie, ricorrendo ad una forchetta, aggiungendo anche fori sul bordo di pasta. C’era chi aggiungeva zucchero una volta sfornate ma, che ci fosse o meno, la fragranza ben calda di quel nettare rimane e rimarrà un tassello di memoria difficilmente spodestabile nella raccolta dei miei ricordi più vivi: un sapore ed un profumo che ancora oggi portano al ricordo di S. Franca.

Si andava, poi, nei negozi di Morfasso (allora erano diversi…) per acquistare la “carta velina” (carta oleata) per “far su” le parti del pollo o della faraona arrosto che sarebbero state consumate rigorosamente fredde. Sempre la carta oleata, ripiegata a comporre piccoli sacchettini, era destinata a raccogliere sale e pepe per insaporire il tutto. A parte: micche di pane fatte in casa, stuzzicadenti, posate, bicchieri, bottiglioni di vino, tovaglie, tovaglioli e qualche coperta per le persone più anziane; allora non si portavano tavoli pieghevoli o seggiolini, sarebbe stato un sacrilegio!

Non c’era ancora la strada che oggi, passando da Rocchetta, congiunge Morfasso capoluogo al monte dedicato alla Santa valdardese (venne realizzata più avanti dall’amministrazione guidata da Renzo Rodi, con l’appoggio dell’Arciprete Mons. Riccardo Serena e del compianto Cardinale morfassino Silvio Oddi); si arrivava in auto sino a Montelana (qualcuno la faceva però tutta a piedi, da casa …). Arrivati lì si parcheggiavano i mezzi e si iniziava la salita portando cesti di vimini e “fazzoletti da spesa” (a trama scozzese) con cibi e bevande. Ricordo anche di bambini e malati portati a braccia o sulle spalle, senza sorprenderci (allora) per le capacità atletiche di chi affrontava una fatica non da poco (e mi interrogavo se vi fosse qualcosa in più della sola prestanza fisica che desse loro non solo il coraggio ma anche la forza necessaria che non poteva certo risiedere esclusivamente in muscoli e tendini).

Qualche trattore (pochissimi) con rimorchio al seguito colmo di persone o qualche fuoristrada tentava di fendere il lungo serpente umano che occupava la carreggiata, sempre troppo stretta, della strada sterrata che si inerpicava sino ad oltre 1.000 metri. Qualcuno approfittava anche della fontana di Montelana per raccogliere acqua da portare in vetta: non esistevano fontane pubbliche sul monte e l’unica acqua da bere era direttamente nella sorgente poco lontana dal pozzo della Santa (sorgente ora non più disponibile), lungo la stradina appena accennata che si inoltrava nel bosco. Noi bimbi sinceramente sentivamo poco la fatica della salita, senza dubbio perché l’aspettativa di quel luogo magico compensava l’acido lattico sparso tra le nostre fibre in veloce maturazione.

La strada era quasi tutta nel bosco con la conseguenza che la vista era costretta dalle fronde degli alberi per cui l’improvviso arrivo a destinazione era scenograficamente di grande impatto perché d’un tratto la vista si apriva pochi metri prima del grande prato e della chiesa che appariva là, chiara, inequivocabile, quasi anche maestosa ai nostri occhi di bimbi non tanto lontani da terra. Qui scappavamo dalle mani delle mamme e ci lanciavamo subito a correre sul prato anche alla ricerca delle bancarelle con le collane di nocciola. Queste erano allora le uniche “attività commerciali di supporto” insieme al gelataio e a qualche bancarella di giocattoli (come dimenticare fucili e pistole con i protettili costituiti da tappini di sughero ancorati con un pezzo di spago e quelle strisce rosse di piccoli cerchietti esplosivi per lo sparo?)

Uno dei fatti più originali era che ogni famiglia aveva un suo spazio ben definito da occupare sotto gli alberi per tovaglie e cibarie, senza che fosse scritto da alcuna parte e senza che si litigasse (almeno in quell’occasione) per il diritto di occupazione. Preso il posto, le donne si occupavano di allestire la scena per le libagioni mentre gli uomini si spostavano per occuparsi delle public relations, in attesa della celebrazione della S. Messa all’aperto. Il parroco don Serena in quell’occasione poteva disporre di un aiuto importante (tipicamente don Giovanni Capra e qualche volta don Alfonso Calamari) e si assisteva anche a qualche competizione tra i tanti che volevano poi portare la statua di S. Franca a spalla durante la processione che in quegli anni si sviluppava in un percorso decisamente lungo ed ardito, visto che raggiungeva il prato in discesa ad est del campo principale. Non c’erano amplificatori audio per cui si doveva far ricorso alla propria voce per fare sentire i passi della celebrazione. Poi tutti orgogliosi di cantare l’inno scritto proprio da don Serena “Su questi monti un dì lontano, con uno stuolo sacro al Signor, tu sei venuta dal verde piano, gli occhi ed il cuore colmi d’amor …”. Ricordo bene di tante persone che non si potevano dire proprio dei cattolici praticanti durante l’anno che però per la ‘loro’ Santa Franca riscoprivano sentimenti di profonda Fede (lungi da me voler giudicare il loro senso di appartenenza, mi limito a costatare quello che era lampante).

Al termine della Messa iniziava il pellegrinaggio per baciare la statua della Santa e qui non posso dimenticare il ruolo di “procura” di fazzoletti bianchi che sfioravano l’effige di S. Franca e che venivano poi riportati a persone malate o invalide che non avevano potuto salire sino a lì. Spesso si acquistavano anche Santini e medagliette benedette ben esposti sul banchetto che curavano soprattutto la signora Stella (sorella di don Serena) e l’immancabile “Maria ‘d Cella”.

Finita la parte religiosa si dava avvio ad un rito altrettanto importante con il dispiegamento delle tovaglie e dei vari contenitori pronti a sfamare un appetito certamente non abituale (solo l’aria di montagna??). Credo di non aver mai gustato nulla nella mia vita con tanta passione ed ingordigia come la faraona arrosto fredda, ricoperta di una buona dose di sale!

Tutti pronti ad intercettare prontamente qualcuno che non si era organizzato con cibo al seguito e veniva, quindi, ospitato con insistenza non proprio da Bon-ton; così come si faceva a gara ad avere come ospiti i Carabinieri e i Sacerdoti (non era ancora stata costruita la sagrestia dietro alla chiesetta).

Un’alternativa al picnic era l’”Alberghe” di “Tugnon e Girom ‘d Santa Franca” che per l’occasione preparavano primi piatti, polenta e carne di maiale senza preoccuparsi troppo degli aspetti igienici. Il vino, comunque, non mancava proprio, soprattutto in bottiglioni e fiaschi e l’occasione speciale aumentava la dose assunta con le buffe e prevedibili conseguenze alcoliche. La festa sul monte era anche l’occasione per incontrare tanti emigrati che, tornati tra i propri luoghi originari obbedendo a quel grande richiamo che le radici sanno irrimediabilmente stimolare, sapevano di poter contare su quell’evento per dispensare abbracci, pacche sulle spalle e racconti di fatti lontani (non solo geograficamente ma anche per la nostra capacità di credervi, come la possibilità di tagliare le fondamenta delle case – in Canada - per poi trasportarle lontano. Salvo vedere oggi, a decenni di distanza, proprio quelle scene sui canali televisivi documentaristici).

Tutto ciò che accadeva su questo monte sembrava perfettamente pianificato, coordinato, previsto, con una regia attenta e puntuale; allora pensavo che invece fosse tutto attribuibile ad un caso più o meno organizzato ma oggi qualche dubbio in più mi accompagna. Che il pranzo fosse finito (o che si avvicinasse alla fine, visto che molti prolungavano sino a merenda inoltrata) lo si capiva chiaramente dai suoni che mutavano nell’ambiente circostante.

Da una parte i cori improvvisati sulle tovaglie con i soliti ma mai stancanti canti di montagna polifonici, con acuti e vene gonfie su visi paonazzi (non si sapeva quanto per lo sforzo e quanto per il vino). Dall’altra il tavolino prontamente allestito per il gioco della “morra” (con Carabinieri distratti, visto che era formalmente un gioco d’azzardo) e quello straordinario ed inimitabile canto con le espressioni dei giocatori a chiamare musicalmente i numeri; facevo sempre molta fatica a capire a quali numeri facessero riferimento perché usavano una lingua a me sconosciuta, che era magica armonia sinfonica con innegabile retrogusto tribale. Rimanevo stordito dalla prontezza di chi segnava i punti utilizzando le carte da briscola piacentine e non capivo proprio come riuscisse a star dietro alla velocità sovrumana dei contendenti nel dispiegare le braccia e far apparire come per magia le dita che traducevano in forma visibile le contorsioni vocali, sempre perfettamente sincronizzate.

Partire da S. Franca al termine della giornata, lasciare quel luogo, era profondamente doloroso per noi bimbi (forse lo era anche per gli adulti ma non lo davano a vedere), dovevamo però intraprendere la strada del rientro che se pur in discesa, era inspiegabilmente (?) più ardua di quando l’avevamo percorsa qualche ora prima. Non bastavano le collane di nocciole o qualche giocattolo a mitigare il senso di “finito” che mi invadeva ed allora tentavo di compensare tuffandomi col pensiero nel futuro, alla prossima salita al monte, a quel luogo che come nessun altro sa di visi, colori, odori, suoni, pensieri, desideri, pentimenti, promesse … almeno per noi che abbiamo avuto il dono di viverlo in una dimensione che oggi non c’è più. Non mi interessa particolarmente segnare il confine esatto tra Fede e tradizione, tra credere e vivere; mi basta chiudere gli occhi per sentirmi “a casa”, là dove era (e in qualche caso ancora è) dimora per tutti.

P.S.

Oggi le pistole con il proiettile in sughero le ho sostituite con i supertecnologici droni; sarà un caso se il primo volo sono andato a farlo proprio a S. Franca?

Gian Francesco Tiramani

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