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Martedì, 23 Aprile 2024
Come andò

Il duro e crudo inquisitore che rivolge domande ai templari nel 1311

Una ricerca storica su un processo che riguarda Piacenza

Mette quasi sconcerto andare a leggere nel dettaglio, dagli originali conservati a Ravenna, la secca crudezza delle domande rivolte dagli inquisitori ai Templari di Piacenza durante il processo intentato a questo Ordine Religioso-Militare da papa Clemente V durante la Cattività Avignonese.

Dalle pergamene originali del 1300 trascritte e date alla stampa sempre in lingua latina, andiamo a leggere del processo di Piacenza e a tradurre le domande e risposte che vennero loro poste: sono molto dirette, quasi crudeli ed al limite della decenza, ma questo è il dato storico di quella trascrizione del notaio in quel tribunale inquisitoriale.

E probabilmente, per i molti appassionati di storia medievale, sarà interessante andare al dettaglio del processo, perché solitamente la cosa che più è conosciuta è l’accusa di “super nephanda” cioè sodomia e “adorazione del Baphometto” ma c’è anche ben altro. Intanto cominciamo con il far presente che tutti i Milites Templi piacentini furono assolti con formula piena: nonostante “ac religiosis viri fratribus Ordinis Predicatorum et Minorum Inquisitoribus” (i due frati inquisitori papali un domenicano ed un francescano) reclamarono perché non era stata usata la tortura durante gli interrogatori, e qui non commenteremo oltre.

I verbali scritti durante l’interrogatorio fatto a Piacenza alla presenza del vescovo Ugo da Pillori (Dei gratia Episcopi Placentini) furono inviati a Ravenna, dove sono tutt’ora, all’arcivescovo Rainaldo da Concorezzo, incaricato di far luce su questa “pravitate” dei Templari piacentini e del nord Italia.

L’interrogatorio dei “frati templari” è redatto dal notaio a Piacenza nella fine di maggio del 1311 e porta la dizione “processus contra Templarius in civitate Placentiae”. Quattro erano stati processati a Ravenna direttamente, comunque eran sette in tutto: Giacomo, Alberto e Guglielmo da Pigazzano con Pietro Cazia e poi Raimondo e Giacomo Fontana con Mauro da Pigazzano. Lo scandalo e il fermento cittadino che di certo si respirò in quel periodo non l’abbiamo purtroppo nel dettaglio delle cronache, ma ipotizziamo che questa faccenda inquisitoriale piacentina tenne tutti sulle spine, ed immaginiamo che fosse inesorabile e del tutto logico.

Dalla Curia papale era arrivato un formulario con le domande d’accusa e queste furono obbligatoriamente usate, per rispetto legale, e quindi così le riproponiamo: va chiarito che ogni templare accusato risponde sempre con il “nec” cioè il no, confutando l’accusa e d’ognuno la pergamena riporta le domande con le risposte dell’accusato, più o meno articolate e la firma dei sette testimoni piacentini, diversi per ognuno degli interrogati.

Riportiamo le domande: “abnegavit Christum vel Jhesum vel Crucifixum vel Deum...” (se al momento dell’ingresso all’Ordine del Tempio come Cavalieri avessero dovuto rinnegare Cristo, Gesù il Crocifisso e Dio stesso... compreso la Vergine ed i Santi), quindi “pro redemptione humani generi...fuisse falsum...” (se avessero negato Cristo come vero Dio e creduto che fosse un falso profeta). Quindi si chiedeva se “a peccatis posset absolvere...” il Gran Maestro non ostante fosse laico e non un presbitero, se li confessasse ed assolvesse da tutti i peccati, e ancora più duramente “doctus fuit quod fratres dicti Ordinis possent carnalitem ad invicem commisceri...” (e se cioè chiaramente fossero stati indotti ad unirsi carnalmente, credendo di non esser in peccato... ed insegnandolo ai novizi).

E l’accusa più cruda: "temeraria et presumptuosa et heretica conspuitione super crucem, signum vel sculpturam crucis et imaginem Christi...” avessero cioè sputato sulla croce, calpestata, e cosa infamissima, l’avessero nel Venerdì Santo lordata con urina. La risposta di tutti, uno per uno a questa precisa e insidiosa domanda dell’inquisitore fu che mai fu fatto, tantomeno “nec minxit die Veneris sancta...” cioè “non orinò nel Venerdì Santo sulla Croce” e il "frater Jacobus de Fontana suprascriptus in presentia" precisò pure che "non lo faceva neanche negli altri giorni sopra ad essa" (vel alia die super eam...).

Altra domanda cruciale era “se venerassero teste di gatto, crani umani o altri idoli" (nec aliquod craneum humanum...) e se “carnalmente avessero toccato qualche idolo” anche naturale quale piante o terra per fecondarla e risposero che non veneravano nessun “Idolum.. vel terram germinare facere...”.

Tra le accuse anche “permettere baci lascivi tra i novizi” e quella che durante la santa messa “si tralasciasse la parte della consacrazione... e s’insegnasse che non c’era la salvezza promessa da Cristo...” al ché la risposta, scontata che leggiamo è che “habet spem salvationis in Jhesu Christo... item quod credidit et credit”. Gli storici ormai hanno assodato che queste accuse erano tutte un'invenzione ben "macchinata" da Filippo il Bello di Francia al quale il papa diede troppo credito.

La cosa positiva è che questo Tribunale seguì tutte le norme “legali” di quel medioevo, senza però arrivare all’uso della tortura, che certamente avrebbe fatto confessare qualsiasi cosa a chi vi era sottoposto, pur di salvar la pelle. Dobbiamo far presente, ad onor di cronaca, perché esiste documentazione coeva originale, che il papa Clemente V si lamentò duramente con l’arcivescovo Rainaldo perché non aveva usato la tortura durante gli interrogatori.

Resta comunque questo fatto di storia locale, letto nel dettaglio degli originali di quel secolo, un piccolo ma significativo tassello di storia che fa parte di quella più grande e complessa vicenda che all’inizio del 1300 interessò anche la Militia Templi di Piacenza.

Umberto Battini

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