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Luigi Paraboschi: «Ancora oggi è possibile credere nel valore della poesia»

Il poeta piacentino dimostra il sentimento di un sognatore che non ha smesso di coltivare la propria passione

A dispetto di tutte le difficoltà, essere poeti è un immenso privilegio, anche ai giorni nostri: lo racconta Luigi Paraboschi, una voce che riscalda l’anima. Il poeta piacentino dimostra il sentimento di un sognatore che non ha smesso di coltivare la propria passione e che è stato in grado di ottenere meravigliosi risultati, con le pubblicazioni delle raccolte poetiche “Il peso delle foglie”, “Geometrie precarie” e “E ci indossiamo stropicciati”.

- Si presenti, delineando, in poche parole, i tratti caratteristici della sua persona.

«Ho quasi 83 anni. Mi sono diplomato in ragioneria nel 1957; ho lavorato per 45 anni quasi esclusivamente nel settore commerciale di diverse attività e, per questa ragione, ho viaggiato in molte parti d’Italia e del mondo. Tuttavia, ho sempre desiderato scrivere: a 18 anni avrei voluto diventare giornalista, anzi, inviato speciale (leggere troppo Hemingway può fare anche male, specie in gioventù), ma fin da quei tempi entrare in un giornale non era impresa facile e ho dovuto accettare un lavoro commerciale, perché dovevo contare sulle mie forze, senza appoggiarmi alla famiglia. Ma il tarlo della scrittura non si combatte facilmente e mi sono sempre dibattuto tra un tentativo di romanzo che inviai allo scrittore Elio Vittorini, il quale all’epoca faceva il talent scout, e che, molto gentilmente, forse lo lesse, ma senza condannarmi alla dannazione eterna (non pubblicato - per fortuna - perché fin da allora esistevano gli editori a pagamento, ma non ho mai abboccato a queste lusinghe) e qualche articoletto semi studentesco su qualche giornaletto a diffusione locale. Nel 1962, ho scritto e pubblicato un pezzo teatrale dal titolo assai eloquente “Bisogna sputare nel piatto”, che fu presentato da una compagnia dilettantistica, nella sede di quello che ora è il cinema Moderno di Castel San Giovanni. Penso che gran parte di coloro che sono sopravvissuti allo spettacolo siano ormai defunti, e quindi è inutile cercare testimoni, fortunatamente. Come tutti coloro che desiderano scrivere, ho composto, fin da allora, numerose poesie, delle quali mi vergogno ancora oggi, talmente grande è la loro banalità. Inutile aggiungere che tali testi avevano quasi sempre temi d’amore, trattati in modo da far arrossire. Negli anni successivi, ho abbandonato le speranze di scrittura per ragioni lavorative, ma, nel 1987, ho ripreso i contatti con la poesia, per mezzo di un gruppo di lettura che si era costituito allo scopo di confrontarsi, e, poco per volta, ho continuato per il mio piacere».

-C’è qualche particolare esperienza che ha segnato in modo rilevante il suo percorso di vita?

«Non so cosa rispondere a questa domanda; tutto è stato importante per la formazione: la passione politica degli anni ‘60, gli amici di allora, le discussioni fino a tarda notte, riguardo al cinema. Credo che il fondo su cui ho costruito il mio essere di persona debba essere ricercato in quel periodo tra i 18 e i 24 anni».

-Da dove è nata la sua passione per la poesia e cosa percepisce quando scrive?

«La mia passione per la poesia nasce dal bisogno di usare poche parole, al posto di fare lunghe tiritere per esprimere ciò che si sente e che si desidera esternare, come invece la prosa permette. Per molti anni, ho seguito la narrativa molto da lontano, anche se non l’ho mai abbandonata come lettore, ma non sono mai più tornato sui passi di un nuovo “tentativo di romanzo”. In compenso, ho cercato di leggere molta poesia, sia italiana che straniera, anche se, per ovvie ragioni, mi sento più legato alla poesia nazionale, perché la traduzione, seppur accurata e ben fatta, non riesce quasi mai a compenetrare fino in fondo lo spirito di chi ha steso i versi».

- Ritiene che sia ancora possibile fare poesia oggi ed ottenere successo?

«Fare poesia oggi è possibilissimo, sembra che vi siano almeno 6000 potenziali poeti in questo Paese, ma, se questo dato lo confrontiamo con le vendite dei libri di poesia, non le 500 copie, che non fanno testo, nel caso di autori affermati come De Angelis o altri, ci rendiamo conto che in questo Paese quasi nessuno legge poesia, però moltissimi ci provano a scriverla».

- C’è qualche testo a cui è legato maggiormente, soprattutto a livello emotivo, rispetto ad altri?

«Io penso che ci si innamori di tanti autori di poesia, in base agli anni che trascorrono. A 20 anni, ho letto tutto Cesare Pavese, sia in romanzi che in poesia, e “Lavorare stanca” è stato un testo fondamentale, non solo per me, ma anche per chi in quel periodo desiderava scrivere versi. Successivamente, ho letto volentieri Ungaretti (anche se la sua versificazione brevissima ha avuto tanti imitatori, che ritengono ancora oggi che fare poesia consista nell’andare a capo ad ogni parola), ho amato e amo ancora Montale de “la Bufera”, e quello dell’ultimo periodo dopo il Nobel; amo Raboni, Erba e la scuola lombarda, Loi per il suo dialetto innovativo ed anche Tonino Guerra per la sua poetica dialettale. Insomma, l’elenco sarebbe lungo, ma voglio ricordare tra i più recenti autori le poesie di Antonella Anedda e di Roberta Da Punt, e qualche altra amica, come Cristina Bove, Claudia Zironi, Silvia Secco. Sono molte le persone che sanno scrivere bene e che hanno pubblicato testi importanti. Ho citato i più noti, ma ho sentito vicini anche alcuni stranieri, ancora pieni di forza, come il russo Brodskij, Celan, Baudelaire e l’autrice Szymborska».

- C’è qualcosa di specifico che innesca in lei la fiamma dell’ispirazione poetica?

«La fiamma, come lei la definisce, è lo stigma fondamentale che caratterizza ogni autore, e alla fine si finisce sempre per privilegiare nella lettura gli scrittori che sentiamo “affini “ al nostro mondo. A volte, si sta per lungo tempo senza saper scrivere un verso, succede a tanti poeti, anche famosi, ma la poesia è un virus che non si estingue mai dentro l’anima e, in qualche modo, “se è viva”, trova sempre il modo di venire fuori. Ad alcuni autori piace l’impegno politico, la poesia sociale; questo aspetto mi tocca solo in certi momenti di particolare sdegno o “incazzatura” (perdoni lo slang), però ciò che mi “ispira“ (e anche qui chiedo scusa per la presunzione) è lo scavo interiore, il cercare dentro di sé le ragioni della tristezza, del malumore o anche della felicità».

- Esiste un autore che funge da suo punto di riferimento? «Le ho già parlato dei fondamentali nella mia formazione, però non riesco mai a dire “voglio scrivere come” un certo personaggio; lascio andare la mano e parto, poi sta al lettore capire se dentro le mie parole vi siano riferimenti culturali precisi».

- Ritiene che le poesie d’amore siano ancora essenziali nella letteratura contemporanea?

«Perché no? Tutti i poeti le hanno scritte e le scrivono sempre. L’amore è parte fondamentale della vita umana, dall’adolescenza alla vecchiaia; Neruda ha scritto sempre ottime poesie d’amore, ma, parafrasando Qualcuno più importante di me, direi che non “di solo amore vive l’uomo”, ma anche di malinconia, smarrimento per lo scorrere del tempo, senso della morte. Credo che sia più facile scrivere d’amore in gioventù: invecchiando si scrive soprattutto della passione che svanisce».

- Cosa consiglierebbe ad un giovane che decide di coltivare questa passione?

«Gli consiglierei di leggere, leggere e ancora leggere poesia, e ogni tanto scrivere, mettere da parte, non avere fretta di pubblicare, saper aspettare, non correre dietro a lusinghe insignificanti».

- Ha qualche obiettivo incisivo per il suo futuro?

«Sto cercando di far pubblicare la mia quarta raccolta, dal titolo “Tra due parentesi ed un punto interrogativo”, dall’editore Ladolfi di Arona, il quale sta facendo l’editing dei testi inviati. Penso che, tra fine settembre ed inizio ottobre, sarà presentato nella cornice di Villa Braghieri, a Castel San Giovanni».

Vittoria Prazzoli

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