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Giovedì, 25 Aprile 2024
Attualità

«In parallelo ai vaccini dobbiamo impegnarci nella ricerca di cure precoci contro il Covid»

Il dottor Luigi Cavanna, direttore del dipartimento di oncoematologia dell'Asl di Piacenza, ospite e relatore dell'interclub organizzato dal Rotary Club Valtidone

Giovedì 4 febbraio si è tenuto un interclub (in modalità online) organizzato dal Rotary Club Valtidone, a cui hanno partecipato i soci dei sette Club piacentini e alcuni soci del Distretto Rotary 2050, con ospite e relatore il dottor Luigi Cavanna, Direttore del dipartimento di oncoematologia dell'Asl di Piacenza. Durante la prima ondata del virus Covid-19 il dottor Cavanna balzò agli onori della cronaca internazionale, grazie alla sua intuizione di curare la malattia presso le abitazioni dei pazienti, guadagnandosi un articolo sulla prestigiosa rivista Time, come esempio della migliore sanità. Dopo l’introduzione a cura del presidente del club Katia Gentili, che ha dato il benvenuto all’ospite d’onore e ne ha annunciato il lungo curriculum, l’intervista è stata condotta da Valentina Stragliati, socia del club. I soci hanno deciso di renderla pubblica, riportandone i passaggi chiave.

Dottor Cavanna, ci parli della sua esperienza, sempre in trincea dall’inizio della pandemia da Coronavirus. «Se penso alla situazione nella quale eravamo a fine febbraio 2020 a Piacenza, anche se cercassi le parole, non riuscirei a trovarle. Piacenza è stata colpita da un’onda d’urto incredibile. Il nostro ospedale è stato improvvisamente occupato da decine e decine di malati in attesa di un posto letto. Ricordo di aver visto fino a cinque o sei ambulanze in fila per il Pronto Soccorso, con il motore accesso, in attesa di scaricare le barelle, con su i malati, e bisognava aspettare un posto letto, talmente elevata era la richiesta di ricoveri che i posti letto scarseggiavano. Scene mai vista prima, neanche nei film di guerra. Ogni giorno ci trovavamo con il Direttore Generale, con il Direttore Sanitario e con altri colleghi in una “cabina di regia” per fare il punto della situazione e appuntarci quanti malati erano arrivati, quanti erano in terapia intensiva, stimando quanti ne sarebbero arrivati nelle giornate seguenti e come rispondere alle richieste incalzanti di necessità di ricovero. L’Ospedale di Piacenza era diventato ospedale Covid al 95-96%, le sale operatorie erano state trasformate in terapie intensive, molti interventi anche per patologie gravi (tumori, malattie cardio vascolari o cerebrovascolari) venivano rinviati. Ci siamo dati da fare per programmare le operazioni in altri ospedali, ma sicuramente il Covid ha ritardato molti interventi, causando indirettamente problemi anche seri ai malati non Covid-19. Più passava il tempo e più ci rendevamo conto che si rischiava di essere travolti e bisognava trovare alternative».

Quando è nata l’idea di curare i malati di Covid presso le loro abitazioni? «Proprio durante una di quelle riunioni, abbiamo fatto delle osservazioni pratiche, semplici e razionali: il Covid è una malattia virale, non è un evento acuto. Quindi lascia tempo (giorni o settimane) per poter intervenire; tutti i malati che giungevano in ospedale affetti da Covid, presentavano un’insufficienza respiratoria e una storia di malattie che durava giorni o settimane; la cura anti Covid in ospedale si basava allora, su due farmaci fondamentali: idrossiclorochina compresse 1+1/die e un antivirale 1 compresse al di per 6-7 giorni, oltre alle terapie di supporto (ossigeno, antibiotici, eparina, ecc.). Per cui ci siamo chiesti: perché non curare precocemente i pazienti a casa, dando le stesse medicine che si danno in ospedale? Si dice che in medicina è vero ciò che accade. Le cose che pensiamo in teoria a volte falliscono nella pratica, per cui abbiamo pensato che il modo giusto era quello di provarci. A domicilio serviva effettuare la diagnosi: non potevamo portare la Tac, ma un ecografo sì, un tampone, un saturimetro (da lasciare ai malati) e poi controllare dall’ospedale. In caso di scarsa saturazione di ossigeno, si chiamava la farmacia e questa faceva portare l’ossigeno direttamente a casa. I primi pazienti curati ci hanno dato ragione, questo metodo stava funzionando e si è rivelato nel tempo una soluzione vincente».

Se l’Italia avesse adottato questo metodo su scala nazionale, sarebbe cambiato l’andamento della malattia? «Sono convinto di sì. Ogni medico di famiglia poteva essere dotato di kit di farmaci, saturimetro, da lasciare ai propri pazienti. Si sarebbe potuta cambiare la storia di questa pandemia, evitando l’emergenza ospedaliera che si è creata. A una malattia infettiva non si può dare una risposta quasi completamente ospedalocentrica, bisogna curare sul territorio ed evitare l’ospedale. Ancora oggi si parla sempre di ospedale, di posti letto e di numero di terapie intensive, che invece sono da considerare per una malattia virale una soluzione estrema, quasi un fallimento della cura, un passaggio estremo e ultimo (per le terapie intensive).  Due interessanti studi hanno dimostrato come l’ospedalizzazione non sia sempre la soluzione migliore. Nel primo studio, un gruppo di ricercatori di Siena ha dimostrato che il 21% dei malati ricoverati con il Covid, si sovra-infetta di batteri o funghi. Si corre quindi il rischio di prendere un’altra infezione (Falcone M. et al. J Antimicrob Chemother. Nov 2020. Doi: 10.1093/jac/dkaa530). Il secondo studio, effettuato su diversi ospedali della Lombardia, ha invece evidenziato che quando vi è un iper afflusso di malati in ospedale aumenta il rischio di morte. Se per esempio il Pronto Soccorso è organizzato per 100 malati ma ne arrivano 300, di fatto può aumentare il rischio di mortalità (Soria A. et al. Plos One. Jan 2020. Doi.org/10.1371/journal.pone.0246170)».

Che impatto psicologico può avere il ricovero in ospedale sulle persone più deboli e anziane? «Una persona anziana ricoverata in ambiente ospedaliero, perdendo i rapporti con il proprio ambiente famigliare, tende a spersonalizzarsi, ad agitarsi, a isolarsi. A questo punto noi medici quando il paziente è agitato diamo i calmanti, di conseguenza il paziente mangiare sempre meno, perdendo così ulteriori probabilità di superare l’infezione con il rischio di non tornare più a casa. In ospedale si perde il contatto umano (noi operatori indossiamo maschere, tute, visiere). Diventa tutto più difficile. Il ricovero può certamente dare garanzie di cura, ma a volte può anche creare difficoltà psicologiche con riscontri negativi importanti; nell’emergenza Covid i parenti non potevano vedere i loro congiunti e questo può aver portato conseguenze molto negative, soprattutto per parenti anziani».

Ci parli delle cure contro il Covid: perché alcune, che sembrano vincenti, vengono poi messe in secondo piano? «L’industria privata è fondamentale per finanziare gli studi sperimentali sui farmaci. Senza l’appoggio delle industrie è difficilissimo trovare i fondi per portare a termine la sperimentazione soprattutto in ambito farmacologico. Come è logico, l’industria privata è interessata al finanziamento quanto si prospetta un buon margine di guadagno, per cui i farmaci a basso costo, che hanno perso il brevetto  e facilmente reperibili hanno poche possibilità di rientrare nei programmi sperimentali. Ne è un esempio l’idrossiclorochina, un farmaco “povero”, che costa poco ed è sul mercato da tanti anni, sul quale nessuna industria privata era interessata a fare uno studio di sperimentazione, nonostante avesse dato ottimi risultati se utilizzato precocemente. Questo punto è fondamentale sottolineare questo: idrossiclorochina funziona se somministrata precocemente entro 3-4 giorni dall’insorgenza dei sintomi Covid. L’unica a progettare uno studio comprendendo l’idrossiclorochina è stata l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco), ma per problemi organizzativi non si è riusciti poi a concretizzare. Inoltre, uno studio, rivelatosi poi non vero, diceva che l’idrossiclorochina non solo non funzionava, ma anzi che era anche tossica, dopodiché è stata sconsigliata per la cura di Covid. Anche plasma iperimmune ha dimostrato una grande efficacia. Un malato che ha passato il Covid può donare il plasma e può essere utilizzato per i nuovi pazienti, ma, anche in questo caso, essendo una procedura senza un’industria alle spalle, non c’è stato interesse economico. Anche la maggior parte degli studi oncologici sono sponsorizzati dall’industria, non c’è da stupirsi né da scandalizzarsi. Se non c’è un investimento economico difficilmente si riescono a portare risultati a uno studio di ricerca farmacologica».

Cosa ne pensa degli anticorpi monoclonali? «Gli anticorpi monoclonali sono molto efficaci, in quanto diretti su bersagli specifici del virus (in questo caso) hanno un costo impegnativo (2000 euro) e sono attualmente prodotti da due multinazionali: troveranno sicuramente un campo di applicazione, sono in corso sperimentazioni anche presso l’Asl di Piacenza. Il costo è comunque relativo, perché queste cure permetteranno innanzitutto alle persone di non andare in ospedale, dove una degenza costa oltre 1000 euro al giorno, e inoltre si eviterà di far rischiare la vita, questo è il nostro primo compito come medici e come istituzioni».

La vitamina D è realmente efficace come metodo di prevenzione? «Abbiamo notato che la maggior parte dei malati ricoverati che avevano una prognosi sfavorevole avevano un tasso di vitamina D nel sangue molto basso. Oggi la vitamina D può essere assunta non solo come prevenzione, ma anche come adiuvante nella cura per pazienti già affetti da Covid».

Esiste una predisposizione genetica al Covid? «Qualche anno fa, un grande clinico italiano disse “non esiste una malattia monofattoriale”, infatti il decorso di qualsiasi malattia dipende sempre sia da fattori esterni (in questo caso il virus) che da fattori endogeni (le difese, la predisposizione, il sistema immunitario). Ma il sistema immunitario può rispondere al virus con un’evoluzione sfavorevole o con un’evoluzione favorevole. E non è matematico che un sistema immunitario forte sia il migliore per sconfiggere il virus, infatti potrebbe innescare una risposta talmente violenta, da causare un eccesso di reazione infiammatoria, creando un danno ai polmoni. Quindi ogni persona reagisce al virus in modo diverso, chi meglio di altri, a seconda appunto di una predisposizione genetica e della risposta immunitaria».

Cosa ne pensa dei vaccini contro il Covid? Il fatto che siano stato immessi sul mercato in tempi così rapidi, è un rischio? «È vero, i vaccini sono stati prodotti in tempi decisamente ridotti rispetto al normale: il fatto è positivo ma è anche un limite, perché non conosciamo gli effetti collaterali a lungo termine, inoltre la metodologia Rna ha sollevato qualche dubbio, ma siamo in condizioni di necessità e quindi ben vengano i vaccini anti Covid. Ma in medicina, come nella vita, è sempre una questione di rapporto tra costi e benefici e di fronte di una drammatica evenienza che sta distruggendo le nostre vite, dobbiamo considerare il vaccino come un’opportunità concreta ed efficace. Se guardiamo al passato, i vaccini sono state innovazioni importati che hanno permesso di salvare milioni di vite nel mondo. Io ho una profonda fiducia nelle istituzioni e ho accettato di buon grado di fare il vaccino (Pfizer), con i limiti di una mancanza di conoscenza su eventuali effetti a lungo termine, per la quale non possiamo fare nulla. Dobbiamo mettere in atto tutto ciò che è possibile per tornare a lavorare, vivere e produrre. Stare chiusi in casa non può essere la soluzione definitiva: bisogna pur lavorare e vivere. Non tutti potranno essere vaccinati, non per tutti il vaccino sarà una protezione, per cui anche le terapie contro il Covid saranno di pari importanza. La speranza è quella di avere terapie semplici, di facile somministrazione, per bocca, intramuscolo o endovena, come accade oggi in oncologia. È fondamentale non considerare il vaccino la sola ed unica soluzione, dobbiamo impegnarci nella ricerca di cure precoci contro il Covid, tale ricerca deve essere in parallelo a quella sui vaccini».

Nel curare i pazienti a casa è andato contro al protocollo, è stata una scelta spinta dal coraggio? «Fa parte del dovere del medico segnalare ai decisori i problemi, i bisogni dei malati e portare soluzioni. Gli operatori sanitari hanno un grande ruolo in questo e penso che non debbano stare in silenzio. Sempre riguardo al protocollo, mentre avevamo iniziato la nostra attività sul territorio ai primi di marzo, in data 9 marzo 2020 il Ministero con decreto legge istituisce le unità speciali di continuità assistenziale (Usca) e questo ci ha poi molto facilitato nell’operatività in quanto la nostra Asl ha istituito più squadre di medici/infermieri che sono andati a visitare a casa tanti malati (migliaia) e anche tutt’ora sono molto operativi: le Usca a Piacenza hanno utilizzato la metodologia con ecografo, saturimetro ecc., codificata all’inizio, e questo è un grande vantaggio rispetto ad altre realtà italiane. Tornando ai protocolli ed agli studi randomizzati, condivido a pieno un pensiero del filosofo francese Paul Ricoeur, che dice “Viviamo in un'epoca in cui all’ipetrofia dei mezzi corrisponde l'atrofia dei fini”. I protocolli e gli studi randomizzati sono il mezzo per acquisire conoscenze per curare al meglio i malati, i protocolli non sono il fine, ma il mezzo; a volte c’è il rischio però che il protocollo venga considerato il fine e questo non va bene. I protocolli devono essere fatti per il bene della gente, se non fanno questo, diventano un ostacolo, davanti al quale non possiamo permetterci di fermarci, e bisogna avere il coraggio, l’intelligenza e la tenacia di riuscire a dimostrarlo con la forza delle evidenze».

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