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L'ex campione di tennis

«Con la racchetta amore a prima vista, lo sport individuale non ti dà scusanti. Federer? È il tennis»

Dalle volée sotto rete alla guida di un marchio di abbigliamento sportivo: una chiacchierata con il piacentino Giordano Maioli, patron di “Australian”: «Non me ne andai da Piacenza 50 anni fa quando mi proposero di studiare nei college americani, figuriamoci adesso»

Dalle volée sotto rete alla guida di un marchio di abbigliamento sportivo. Il piacentino Giordano Maioli ha saputo maneggiare con talento la racchetta, ma anche contratti e sponsorizzazioni. Il 78enne è stato campione italiano juniores per due anni consecutivi e nel 1966 ha vinto i campionati italiani assoluti di tennis. Nel doppio è stato quattro volte campione italiano. Ha vinto il titolo, due volte, anche nel doppio misto. In carriera ha conquistato sei medaglie alle Universiadi e ha giocato 19 volte in Coppa Davis. Nel 1972 è stato capitano non giocatore della nazionale. Dal 1977 si occupa del marchio “Australian”, del quale è poi diventato amministratore delegato. L’azienda, che ha sede tra Milano e Gorgonzola (ci lavorano diversi piacentini), oggi è guidata anche dai figli Lorenzo e Andrea, 39 e 36 anni. Lo abbiamo incontrato per una piacevole chiacchierata al circolo "Nino Bixio" di Piacenza.

  • Maioli, bisogna partire per forza dall’addio al campo di Roger Federer. Chi è stato per questo sport?

È stato semplicemente “il tennis”. Non si può dire che sia stato il più forte, perché in quel caso contano i risultati, i numeri. Ma è stato il migliore, il più ammirato, lo dicono i suoi stessi colleghi. Rod Laver, l’unico ad aver centrato due “Grande Slam”, ritiene un onore essere paragonato a Federer.

  • Federer, Nadal, Djokovic: tra i tre “mostri” sacri moderni chi è il suo preferito?

Lo svizzero senz’altro, non ti stancavi mai di guardarlo. In passato ci sono stati altri giocatori molto belli da vedere, ma non così forti e vincenti come lui. Lo conobbi per la prima volta a Milano: aveva 16 anni, i capelli lunghi, era irascibile, un tipo molto diverso da oggi. Poi si “è messo in pace” ed è diventato un super signore in campo. Si è allenato anche psicologicamente.

  • Quanto è cambiato il tennis da quando giocava lei ai giorni nostri?

L’atteggiamento del giocatore è uguale, ma l’aspetto tecnico è cambiato enormemente. A partire dall’attrezzo. Poi c’è la preparazione e la professionalità. Una volta c’erano 50 giocatori molto buoni, oggi ce ne sono 300. Il livello si è alzato moltissimo, la competizione è molto più esasperata, è più difficile emergere. Ai miei tempi bastava il solo talento, adesso bisogna lavorarci sopra molto, altrimenti non ce la si fa. I “tre mostri” sono dei fenomeni di talento, ma grandi lavoratori e super atleti: Federer e Nadal sono alti 1.86, Djokovic è 1.88. Ai miei tempi un tennista di 1.80 era altissimo, la media era di 1.75. È l’evoluzione della specie, anche lo sport si adegua. 

  • Che giocatore era Maioli?

Un giocatore della fascia media, diciamo tra il numero 30 e 40 del mondo. Regolarista, nato sulla terra, che si sapeva adeguare all’erba e al veloce. E anche sul legno!

  • Si giocava anche sul parquet?

C’era una manifestazione, la “coppa del Re di Svezia”, che si giocava anche sul parquet del PalaLido di Milano. La palla correva velocissima, oggi sarebbe improponibile.

  • La testa di un atleta che fa uno sport individuale è sotto pressione.

Lo sport individuale non ti dà scusanti. Il vantaggio è che se lo meriti, vinci. Nello sport di squadra ci sono più fattori: l’allenatore, la società… Pensiamo a Djokovic agli Us Open dell’anno scorso, quando ha fallito il Grande Slam: non gioca per i soldi, era frustrato dalla sconfitta. Percepisci tutto amplificato, compresa la paura. Quando hai il pubblico addosso che applaude l’altro e fischia te, è dura. Non è vero che giocare con 500 persone o 5mila sia la stessa cosa. Quando hai molto pubblico lo senti e lo subisci. Così come un applauso di 10mila tifosi è diverso da quello di 100.

  • Maioli e il tennis, quando è sbocciato l’amore?

Ho iniziato tardi a giocare, però è stato amore a prima vista. Mio padre amava il tennis, a 13 anni diedi i primissimi colpi alla Vittorino. Dopo due anni andai alla Nino Bixio. Era uno sport d’élite: quattro campi in tutta la città, divisi tra questi due circoli, non c’era altro. Ho avuto la fortuna di incocciare nello sport che mi si addiceva.

  • Oggi è uno sport popolare?

Le scuole tennis reclutano molto più che in passato, centinaia di bimbi le frequentano. Il Tennis club Milano ha 600 bambini, servono tanti maestri e campi. Molti smettono, altri vanno avanti, qualcuno tenta di diventare un giocatore. A mio giudizio alcuni scelgono troppo presto di dedicarsi a tempo pieno nella ricorsa al grande sogno. Servono talento e mentalità, per fare il professionista bisogna avere una “testa particolare”.

  • Le emozioni più intense le ha vissute in maglia azzurra, in Coppa Davis?

Dico solo questo: quando la Nazionale di Davis veniva presentata in campo e risuonava l’inno di Mameli, sudavo. È un’emozione forte che senti nella pelle. Emozione che purtroppo può fare anche male: quando perdi senti ancora di più la sconfitta, così come quando vinci, godi maggiormente.

  • I suoi ex compagni di Davis Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli sono tornati sulla cresta dell’onda grazie al documentario Sky sulla Davis…

È fantastico, quell’epopea mitica del tennis italiano l’ho vissuta ai loro margini, sono miei amici. Prima della vittoria in Davis si giocarono gli Assoluti a Pescara: Barazzutti vinse il singolare, io e Ocleppo il doppio. Ricordo benissimo le polemiche per la partecipazione in Cile e lo scontro con Pietrangeli. Se non c’era lui non sarebbero andati a giocare in Cile, fu bravo a spendersi per disputare la finale ed evitare il boicottaggio.

  • Smise di giocare presto, a 24 anni, e si trovò un lavoro… 

Ho smesso di fare il tennista a tempo pieno a quell’età, però facevo lo stesso i tornei. Curiosamente, da non professionista, ho giocato meglio e raccolto successi, perché ero più libero mentalmente. Ho vinto il titolo italiano in doppio con Pietrangeli e il misto con Lea Pericoli. Ho avuto esperienze lavorative per sette anni, poi a 29 sono diventato capitano non giocatore in Coppa Davis. In quel momento due aziende, una di racchette, l’altra di abbigliamento sportivo, mi vollero per lavorare nella parte commerciale. La prima durò un anno, la seconda non è ancora terminata: era “L’Alpina Maglierie sportive” con il marchio “Australian”.

  • Con Sergio Tacchini siete stati rivali in singolare, compagni in doppio e poi di nuovo rivali nel mondo dell’abbigliamento sportivo.

Pazzesco. Lui nel ’66 giocava il doppio con me, nel ’67 fondò l’azienda. Dieci anni dopo arrivai anche io, nel ’77.

  • Che marchio è “Australian”?

Nacque nel ’56, all’epoca nel tennis lavoravano solo Lacoste e Fred Perry. Inizialmente si occupava anche di basket e sci (eravamo lo sponsor tecnico di alcune nazionali europee), però abbiamo scelto di concentrarci solo sul tennis. Oggi conta su sessanta dipendenti - lo stabilimento è a Gorgonzola - ma il confezionamento è affidato esternamente. La parte più importante è stabilire i tessuti, disegnare i modelli e tagliarli. Facciamo quasi tutto in Italia. Cerchiamo di mantenere tutto qui.

  • Lavorate in un mercato che è dominato da colossi internazionali…

Circa 35 anni fa i grandi marchi, Nike e Adidas, si sono inseriti bene in Cina e in Asia. Noi siamo un’azienda di nicchia, che presenta un prodotto più specializzato. Però ci siamo. Tacchini, Fila, Ellesse erano tutti italiani e oggi non lo sono più: c’è stato un momento nel quale operavano 50 marchi italiani. O sono falliti, o sono stati comprati da stranieri.

  • Avete avuto molti testimonial. A chi rimane più legato?

Sono rimasto amico di tutti i giocatori, però mi rimane nel cuore Ivan Lendl. Lo prendemmo a 16 anni e in sede si ricordò di avermi fatto da raccattapalle nella coppa del Re di Svezia ad Ostrava, nell’allora Cecoslovacchia. Ebbene, questo mio raccattapalle, cinque anni dopo, diventò il numero 1. Goran Ivanisevic vestì Australian dai 16 ai 21 anni prima di passare con Tacchini. Perse la finale di Wimbledon del ’92 con “la mia roba”. Peter Korda, invece, vinse proprio gli Australian Open con noi nel ’98.

  • Cerca di scoprire giovani talenti da “vestire”, anticipando Nike e Adidas?

Non li cerco più, però se li vedo, li riconosco. La buona tecnica la noto subito, ma prima di investire su un giovanissimo dovrei passare molto tempo con lui, per vedere le qualità umane e mentali. Quattro-cinque anni fa parlai con Riccardo Piatti di Jannik Sinner, si capiva che sarebbe diventato forte, lo vedevano tutti. L’incontro venne rimandato di un mese e nel frattempo lui firmò con Nike.

  • Gioca ancora a tennis?

Due volte nel fine settimana, ma niente partite, solo qualche palleggio tra amici, niente più agonismo.

  • Tutti i giorni va a Milano per lavoro, ma alla sera torna sempre a Piacenza.

Non voglio stare a Milano, sto bene nella nostra città, dove sono nato. Ho girato il mondo e trovo che la qualità della vita non sia così cattiva come si dice. Siamo molto critici con la nostra realtà, ci piangiamo un po’ addosso, di carattere siamo fatti così. Non me ne andai 50 anni fa quando, essendo tra i primi 8 juniores al mondo, mi proposero di studiare nei college americani con una borsa di studio. Figuriamoci adesso.

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