Prosciutto e melone già pietanza medievale. Dai Longobardi l'uso di brasare la carne
All’Accademia della cucina piacentina di scena la “scuola medica salernitana e la cucina del Medioevo”: niente latte considerato alimento per bambini e barbari, il pesce, un alimento povero mentre la carne era simbolo di potenza (e ricchezza)
L’Accademia della cucina piacentina è un’associazione storica, radicata nell’humus culturale e delle tradizioni della nostra città da quasi sessant’anni, un punto di riferimento, l’unico, di valorizzazione delle tradizioni locali principalmente in ambito enogastronomico. Per questo in ossequio a tali finalità, nei limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di associazioni di promozione sociale, il sodalizio propone ed attua iniziative per valorizzare le tradizioni locali con particolare riferimento al settore enogastronomico; inoltre indice ed organizza convegni, dibattiti ed altre occasioni di informazione dedicate alla conoscenza della cucina piacentina ed alla cultura eno-gastronomica locale. Questo perché il cibo e la sua manipolazione sono anzitutto fatti storici e sociali che affondano le radici anche nel più lontano passato, sempre ricordando la fondamentale accezione che “noi siamo perché siamo stati”.
A tal fine il sodalizio già da qualche tempo, con cadenza quindicinale, offre ai propri soci ed ai loro ospiti, serate culturali (giovedì) periodiche dedicate alla storia e sociologia del cibo e dell’alimentazione proponendo la conversazione di qualche esperto cui segue una cena in tema agli argomenti esposti. Ad inaugurare il ciclo autunnale è intervenuto il vicepresidente dell’associazione, il professore Mauro Sangermani che, con una dotta quanto articolata ed approfondita disamina, ha analizzato la scuola medica salernitana e la cucina del Medioevo.
La Scuola Medica Salernitana è infatti una delle scuole più importanti della storia della medicina: ai suoi principi si rifanno teorie considerate attualissime che prendono spunto proprio da questa Scuola, considerata la prima e più importante istituzione medica d’Europa nel Medioevo. «Un regola fondamentale per la salute secondo la Scuola salernitana - ha esordito Sangermaini - era l’equilibrio dei 4 umori corporali introdotti da Ippocrate: la bile nera (terra, umore malinconico e sede nella milza), bile gialla (fuoco, collera e sede nel fegato), flegma (corrisponde allo stato flemmatico, all’acqua e sede nella testa), il sangue (aria che ha sede nel cuore e corrisponde a un personalità sanguigna). Un loro sbilanciamento faceva sentire male il corpo.
Se si provano a sfogliare ricettari della cucina medievale si evidenziava come essi elencassero solo i cibi da utilizzare, senza quantità e temperature, mentre i tempi di cottura erano scanditi dalle preghiere. Essendo una scuola di stampo pratico, la scuola salernitana puntava molto sulle buone abitudini alimentari, che riprendevano le teorie umorali di Ippocrate e di Galeno, i quali avevano tradotto gli elementi costitutivi del mondo della filosofia greca antica (aria, acqua, fuoco e terra) nei fondamenti della medicina. Un loro disequilibrio all’interno del corpo umano portava alla malattia. Ecco perché la cucina, con la sua capacità di trasformare gli alimenti, permetteva il loro perfetto equilibrio nel piatto. Per ottenere questo risultato due erano le principali linee di intervento: le tecniche di cottura e le modalità di abbinamento fra i cibi. Sangermani ha portato l’esempio della carne: deve esserci una precisa corrispondenza tra il tipo di carne e la sua cottura.
Se le carni sono secche sarà preferibile aggiungere acqua, ovvero bollirle, mentre al contrario le carne umide andranno arrostite. Gli abbinamenti che caratterizzano gli alimenti ci rendono conto di comportamenti alimentari che ancora oggi sono presenti sulle nostre tavole. Ad esempio, il prosciutto accompagnato con il melone ha una ragione antica: la frutta era ritenuta eccessivamente umida dalla dietetica medievale, ecco perché la si accompagnava con il prosciutto (o il formaggio) per “asciugarla”, e renderla più salutare. Il cuoco medievale, in fin dei conti, era anche un po’ un medico.
Quell’epoca ci ha lasciato il legame tra piacere della tavola e salute, che era indissolubile, ma che poi nel corso della storia è stato un po’ perduto. Per la cucina medievale gli alimenti, per essere digeriti facilmente dovevano risvegliare i succhi digestivi attraverso il piacere della tavola.
L’invasione longobarda produsse grandi ripercussioni non solo sulla società, ma anche sull’alimentazione soppiantando le abitudini culinarie romane. Basata su carne, burro, lardo e birra (o meglio cervogia, cioè birra senza luppolo), per questi popoli simbolo dell’alimentazione era il maiale allevato allo stato semibrado nei boschi: più che silenzi, nei boschi dell’epoca, si udivano i grugniti dei branchi che scorrazzavano guidati dal porcaro. Il pascolo dei suini era talmente importante che gli stessi boschi vengono misurati in maiali. La carne era simbolo di forza e potenza e derivava principalmente da questi animali piccoli e neri, simili a cinghiali, dai quali si ricavava soprattutto la sugna per friggere (non sempre l’olio era disponibile). Si mangiavano anche agnelli, polli e in misura minore la carne dei bovini, perché erano bestie da lavoro e costosi da allevare. Erano comunque pochi quelli che potevano permettersi la carne, consumata per lo più sotto sale.
I Longobardi portarono l’uso di cuocere la carne tramite il brasato. Nella cucina alto-medievale la carne si cercava di non arrostirla, ma di consumarla in brodo per sfruttarla al massimo. I ricchi potevano contare pure sulle riserve di caccia. Anche il cibo seguiva le differenze di classe, solo i nobili potevano mangiare determinati alimenti. Spesso cacciavano animali dannosi per l’agricoltura facendo un grande favore ai propri sudditi: da questa “cortesia” nacque la caccia alla volpe. Non si beveva latte sia perché considerato alimento per bambini e barbari, sia perché non si conservava bene. Molto utilizzati invece erano i formaggi: furono i monasteri dell’epoca a crearli. Si faceva inoltre un grande uso di erbe aromatiche e spezie sia per conservare il cibo sia per ostentare la propria ricchezza. Sulla tavola dei poveri erano molto diffusi i cereali, talvolta grano, più spesso segale e orzo consumati sotto forma di pane, zuppe o minestre. C’erano poi ortaggi e legumi: lattughe, rape, cipolle, zucche, cavoli.
Erano i ceti sociali più poveri a non potersi permettere carne, formaggi e derivati. Verdura e legumi erano così alla base dell’alimentazione medievale. Tutto ciò che cresceva nella terra era per i poveri; i nobili, in una società radicalmente classista, si cibavano solo di ciò che si avvicinava al cielo, verso l’alto. Il pesce contrariamente ad oggi era considerato un alimento povero e si continuava ad usare il garum dell’epoca classica, evoluto al giorno d’oggi nella colatura d’alici che i nostri antenati usavano per condire ogni cosa. Insomma una vera e propria “lectio culinaria” che ha interessato i numerosi presenti che hanno poi potuto gustare una cena “stagionale” a base di funghi ammanniti dai cuochi-gentleman (e dalla cuoca-lady) dell’Accademia.