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«L’organo di San Sisto attende ancora di essere restituito alla sua veste più autentica»

L’intervento di Italia Nostra sui restauri: «La committenza ha deciso di limitarsi alla manutenzione straordinaria delle sole 625 canne metalliche»

«L’organo di S. Sisto attende ancora di essere restituito alla sua veste più autentica». Italia Nostra - Associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione – interviene con una nota stampa sui restauri all’organo della chiesa di San Sisto a Piacenza, «un’occasione perduta». «Sono recenti le notizie di lavori attorno all’organo storico della chiesa di S. Sisto a Piacenza. Si tratta di uno strumento complesso per antichità e stratificazioni - sottolineano - dato che la prima costruzione risale al bresciano Giovanni Battista Facchetti (1544-1545): considerato che l’organo più antico del mondo conservato fino ad oggi risale al 1435, ben se ne comprende l’assoluto rilievo. Ampliato dai parmensi Carlo e Giuseppe Lanzi (1686-1698) e rimaneggiato da Cesare Gianfrè (1840) e da Gaetano Ferranti (1895), come è noto è stato restaurato nel 1991 dalla Famiglia Vincenzo Mascioni grazie alla Banca di Piacenza, che per l’occasione ha offerto anche il restauro integrale (per opera di Ettore Aspetti) delle due cantorie e prospetti dell’organo vero e di quello finto, capolavori dell’ebanisteria barocca in legno intagliato e dorato al pari della superba cornice che dal 1698 al 1754 ha ospitato la Madonna Sistina di Raffaello. Questi dati fanno capire l’eccezionalità di un organo che travalica la categoria di strumento musicale per assurgere a quella di monumento e di palinsesto, che merita rispetto, attenzione e competenza a livello elevatissimo». «Nel 2018 - prosegue la nota -  la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Parma e Piacenza ha autorizzato un secondo restauro teso – sulla base di più recenti ricerche e studi (autore l’ispettore onorario competente per territorio, già partecipe del restauro) pubblicati sul «Bollettino Storico Piacentino» nel 2010 e sulla rivista L’Organo nel 2012 – a rimuovere le spurie stratificazioni ottocentesche per restituire lo strumento al più autentico (essendo irrecuperabile quello rinascimentale) stadio seicentesco. Tuttavia, contro il parere degli esperti, la committenza ha deciso di limitarsi alla manutenzione straordinaria (lavaggio e pulizia) delle sole 625 canne metalliche. Se si considera che più di un terzo delle canne, in particolare quelle di maggiori dimensioni cioè la sostanza dello strumento, risale alla prima costruzione di cinque secoli fa e le altre ai secoli XVII e XVIII, ben si può comprendere come la movimentazione di manufatti così antichi per una mera pulizia, oltretutto effettuata non in loco (come d’uso) ma in laboratorio a chilometri di distanza, sottopone gli stessi a un oggettivo aggravamento delle condizioni di conservazione. Peraltro, lo strumento, dopo il restauro di solo trent’anni fa, è sempre stato regolarmente utilizzato anche per incisioni discografiche e concerti, sicché questa pulizia non pareva né urgente né indispensabile. Oltre a non essere accompagnata dalla individuazione e chiusura di tutti i varchi di accesso dei topi (indipendentemente dall’eventuale ricorso a dispositivi elettronici di contrasto)».

«Ma non è tutto» aggiungono. «Terminate le operazioni nel settembre 2020 la committenza, astenendosi dal chiedere l’immediato rimontaggio delle venerande canne (così esponendole al rischio di furto o di perdita per caso fortuito), ha inopinatamente presentato una nuova, apodittica ipotesi di restauro del giovane organista parrocchiale, annunciando altresì sulla stampa una pubblica raccolta di fondi per avviare un futuro, ipotetico restauro. Perdurando l’infruttuoso deposito del prezioso materiale in laboratorio, nello scorso mese di gennaio la Soprintendenza, d’intesa con l’Ufficio diocesano Beni culturali ecclesiastici, ha meritoriamente ottenuto la ricomposizione e il rimontaggio dello strumento nella sua propria sede». «Come si vede - conclude la nota - un’occasione perduta: nell’auspicata ipotesi di un secondo restauro dopo quello del 1991, l’organo dovrà essere smontato e trasferito in laboratorio un’altra volta. La vicenda insegna che casi speciali impongono un’attenzione e un controllo speciali. Ciò, anche superando prassi e competenze formali, al fine di escludere approssimazioni e incertezze che possono risolversi in danno del patrimonio storico-artistico a noi tramandato. L’organo della chiesa già abbaziale di S. Sisto, sorprendente innesto della scuola parmense del Seicento sulla gloriosa organaria bresciana rinascimentale, purtroppo ancora attende di essere restituito, consapevolmente, alla sua veste più autentica».

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