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Dal nostro passato

Nella Piacenza del Rinascimento “l’abito non faceva il monaco”

Furti, scandali sessuali, assalti: il clero piacentino si mise in luce per episodi per nulla edificanti

È un detto popolare che ha delle valide e solide fondamenta, conosciuto da chiunque: “L’abito non fa il monaco”. Non per fare i moralisti, ma i secoli ci hanno narrato di infelici episodi al riguardo di uomini e donne di fede “in abito religioso” che hanno sdegnato e, a volte, divertito il popolo.

Se andiamo a mettere l’occhio sugli anni che vanno tra XV e XVI secolo, la cronaca storica al riguardo è impietosa, chiara e documentata anche nel Piacentino. Sono i secoli conosciuti come “Rinascimento” o anche come “Umanesimo”, ma anch’essi segnati da contrasti politici, religiosi, popolari.

Senza troppa fatica basta andare a prender tra le mani i testi di Luciano Scarabelli, pubblicati a metà dell’Ottocento e potremo leggere di come vivessero clero e religiosi in quel lasso d’anni. È notevole lo studio storico di don Franco Molinari del 1957 dedicato al vescovo Burali e all’applicazione della riforma Tridentina, un testo che entra nelle “viscere” del clero piacentino, svelandone i costumi di quel secolo dove la religione era stata gettata alle ortiche.

Si narra infatti che in quel tardo 1400 “i preti, i frati, le monache erano un insulto patente alla pudicizia e all’onestà”. Ad esempio nel 1476 per gli scandali si “discacciarono i Domenicani conventuali da S. Giovanni (in Canale) e vi si misero i francescani Osservanti”.

Certo i monaci se ne andarono, “ma asportarono persino i chiodi e quello che non asportarono arsero” ed addirittura con l’aiuto dei frati di S. Francesco (in piazza) e di quelli di S. Lorenzo “raccolsero armi, corde e scale... e gentaglia di plebe per assaltare l’abbandonato convento”.

Ma trovarono a difesa i militi ducali e le autorità cittadine e dovettero abbandonare il proposito, certamente poco edificante e passata la bufera tornarono al loro convento.

Ma anche nei conventi femminili si era caduti molto in basso: “Piacenza impetrò che i monasteri fatti lupanari si sopprimessero”, ma in modo alquanto curioso, si operarono solo dei trasferimenti.

Leggiamo che “le monache di S. Matteo e quelle di Galilea furono messe in San Raimondo, le monache di S. Elisabetta in S. Franca” e via dicendo, come se il vizio fosse stato “nei muri conventuali”.

Scopriamo che “la coabitazione forzata tra monache è all'origine di litigi donneschi, risse verbali, dispetti...” e tutta una serie di fatti non proprio esemplari.

Un episodio “Boccaccesco”, documentato dall'inquisitore, è quello successo nel monastero di S. Raimondo nel 1545: tra “un abile artigiano chiamato a riparare la serratura dell’organo... e suor Ludovica Rossi, una ragazza ancor giovane e molto piacente...”. L’epilogo è ben immaginabile. Scoperti, lui (sposato con sette figli) venne “condannato al carcere a vita” ma la suora - essendo figlia di nobili - uscì indenne dall’avventura amorosa.

I dati storici ci dicono che “il clero maschile era anche più malvagio, le monache a paragone dei preti e dei frati, parevan sante”. Le chiese parrocchiali, soprattutto in campagna, erano praticamente abbandonate, lasciate in stato pietoso, senza rispetto del luogo sacro ed i riti che vi si celebravano erano pochi e mal fatti.

Dalle carte originale ad esempio si scopre che "il prete Ricio di Piacenza" nel 1558 venne “bastonato dall’inquisitore in San Giovanni in Canale” perchè “incline alla magia, benediceva in chiesa amuleti per stimolare il desiderio sessuale... e soleva frequentare la casa di una prostituta dove benediceva altri amuleti e pietre...”.

Un altro fatto acclarato era che i preti avevano abbandonato la talare nera, vestivano come i laici, con abiti colorati, rivestiti con pizzi assai costosi, e molti "frequentavano con assiduità le osterie... alloggiano in taverne” dove si sapeva che “vive il vizio”. I preti erano anche, e per motivi non di religione, “assidui frequentatori di conventi di monache” con uscite notturne “de nocte, post primam horam”.

A questo punto il vescovo emana una editto col quale si proibisce a clerici o uomini laici di entrare nei conventi di suore in Piacenza ed in tutta l’intera Diocesi “nullaque persona ecclesiastica vel saecolaris aliquam recipiat in earum domibus... sub excommunicationis poena”, cioè chi violava questa regola era di fatto scomunicato.

Ma per fortuna vennero uomini e tempi migliori, si cercò di dare un freno a questi scandali frequenti, così “nacquero” confraternite “di denunciatori”. I Domenicani di Piacenza nel 1460 diedero vita ai “disciplinati di S. Pietro Martire i quali giuravano di difendere la religione dagli eretici denunciando maghi, bestemmiatori, eretici...”.

E la faccenda si fece terribilmente seria in diocesi di Piacenza ed in quella vicina di Pavia che sconfinava nell’Oltre Po. La cronaca del 1464 ci racconta di decine di arresti in diocesi di Piacenza, ed orribile rimane il fatto documentato di Varzi dove vennero “bruciate venticinque donne e molti uomini...”, ed ancora è visibile la medievale Torre Malaspina, conosciuta oggi come “Torre delle streghe”.

Nel giugno del 1512 addirittura venne assalito e rapinato di ogni bene anche il palazzo episcopale in città, dal documento originale della denuncia fatta dal Vicario Episcopale scopriamo che vennero rubati “frumentum, farinam, vinum, carnem, salsas, ligna, lectos, libros, peltrum...”.

Bisognerà attendere l’arrivo del beato vescovo Paolo Burali, che dal 1568 operò una poderosa riforma del clero e dei religiosi nella diocesi di Piacenza, infatti “provvide ad una radicale epurazione interna nelle file del clero... radiò gli indegni e gli incapaci... sbarrò la strada agli inetti...”.

Il vescovo Burali, amico di S. Carlo Borromeo darà una svolta potente al recupero dei valori delle fede e si adopererà per metter in pratica la “controriforma”, cioè i decreti decisi dal Concilio di Trento.

Ci volle oltre un secolo perché si potesse ritornare ad una “normalità” di costumi per preti, monaci e suore. Non c’è ambito della società piacentina che non abbia qualcosa da raccontare, e gli storici che hanno rovistato tra le carte del tempo ce ne hanno lasciata memoria.

Umberto Battini

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