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Storia di un orribile supplizio nella Piacenza medievale

Nel 1326 due traditori furono tenagliati e sepolti vivi a testa in giù vicino a San Sisto

È interessante andare a rileggere episodi di storia locale, che ci mostrano come l’uomo in particolari momenti delle sue vicende, possa diventare vendicativo e violento. Ed un efferato fatto è legato alla Rocca d’Olgisio di Pianello, accaduto in pieno medioevo, nell’anno 1326. La cronaca succinta, ma scrupolosa, viene da due importanti antichi storici, il Ripalta ed il Musso, che riportano l’accaduto e che abbiamo riletto nella “Storia di Piacenza” di Francesco Giarelli del 1889.

Piacenza era da pochissimo ritornata di parte guelfa, sotto il dominio della Chiesa, e Galeazzo Visconti aveva nel territorio il figlio Azzo, con un notevole numero di uomini. D’accordo con i “fuorusciti piacentini”, cioè i ghibellini cacciati, posero danno al territorio e decisero di attaccare il castello d’Olgisio, tenuto dai fratelli Paolo e Dazio Dalla Rocca quale avamposto della Chiesa. Due soldati delle truppe papali fecero nascostamente patti con gli attaccanti ghibellini dietro la promessa di aver salva la vita e ovviamente una ricompensa: avrebbero patteggiato la resa senza colpo ferire. Un tradimento vero e proprio.

Fatto sta che la storia racconta che gli ufficiali papali a Piacenza furono per vie traverse informati dell’imminente attacco e tradimento. Inviarono a difesa della Rocca d’Olgisio ben “settecento uomini d’arme ed altre soldatesche della città e del contado”. E con grande battaglia “non longe a dicto castro” fermarono gli attaccanti con “grande strage” e obbligandoli alla fuga, al che il racconto assume quasi un quadro da cinematografo, sembra di rivedere scene del grande cinema d’armi, ma invece è il fedele racconto d’un fatto storico.

I guelfi fanno ben trecento prigionieri dei fuorusciti avversi e tra questi i due soldati traditori della Chiesa: per loro non ci sarà nessuna pietà, la condanna fu grave e piena di tormenti e la cronaca del tempo ci lascia i loro nomi, Carcagno e Rodolfo.

E qui il racconto si fa più crudo, preciso e cruento: a Piacenza i due traditori sono prima di tutto dati in mano al boia per essere torturati con il supplizio della tenaglia “tenaliati fuerunt”.

Stiamo parlando di forme di tortura in uso in quei tempi medievali, diffuse e terribili, che anche dalle nostre parti erano messe in pratica senza scampo. I “tenagliati” si vedevano staccare brandelli di carne per mezzo di una grande tenaglia arroventata sul fuoco. I due malcapitati erano accusati di tradimento e per giunta l’aver tentato di cedere al nemico una fortezza possente e importante per tutta quella vallata.

Ma il bello doveva ancora venire: “deinde adhuc viventes plantati fuerunt cum capitibus in quatuor profundis foveis” (e quindi ancora viventi, furono piantati a testa in giù in quattro profonde fosse”. Un tipo di supplizio anche questo in auge, tanto che anche Dante Alighieri nell’Inferno incontra i simoniaci “piantati a gambe all’aria”.

Del malcapitato si lasciavano fuori solo le gambe e la fossa che conteneva il busto si poteva anche riempirla con sterco, la morte era ad ogni modo per soffocamento.

Il fatto della “propagginazione” (così si chiama questo tipo di pena medievale) venne fatto ai malcapitati, ai margini della città “in campo Feriae” (al campo della Fiera) che in quel tempo era grosso modo presso la zona del monastero di S. Sisto.

Un episodio di storia piacentina, letto nel dettaglio, che ci testimonia come le vicende umane e storiche siano anche cariche di episodi aspri e cruenti, trasmessi con precisione e fredda lucidità ai futuri lettori dei nostri tempi.

Umberto Battini

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