rotate-mobile
Sabato, 20 Aprile 2024
Storia

Stupri, saccheggi, profanazioni: le crudeltà del sacco di Piacenza del 1447

Lo Sforza dà battaglia sul fiume Po con i galeoni contro la nostra città

Di Umberto Battini

È di certo una battaglia dal profilo quasi epico quella che si svolse a Piacenza nel 1447, tra colpi di bombarda incessanti scagliati sia da terra che dal fiume Po, conclusa con la disfatta completa della città, che fu data al sacco senza pietà.

In questo fatto di guerra ha un rilievo anche il Grande Fiume: per tutto il tempo dell’assedio, durato poco più di quaranta giorni, un ruolo importante sarà svolto da quattro grandi galeoni e decine di navi cariche di uomini, inviate da Pavia e messe a battaglia davanti a Piacenza e cruciali nell’evitare l’attracco dei galeoni veneti inviati a difesa dei piacentini.

E’ fondamentale anche il ponte di barche gettato dagli assalitori davanti a Porta Borghetto, zona strategica perché qui era uno dei due antichi porti cittadini.

Il 21 settembre 1447 sul Po a Piacenza compare il vessillo dello Sforza che svetta anche su decine di altre navi minori cariche di ben 500 soldati pavesi che occupano anche il canale della Fodesta nei pressi del quartiere dei navaroli di Sant’Agnese.

L’assedio decisivo inizia il 1 ottobre del 1447 e si conclude con i fatti di sangue, di violenza e profanazione che lasciano senza fiato: il sacco avviene sabato 16 novembre e probabilmente è un episodio di storia cittadina che merita il ricordo, perché ci insegna che tutto ciò che siamo oggi in fatto di libertà, espressioni e progresso sono passati anche per queste quasi dimenticate e secolari strade di guerra.

Esattamente cento anni dopo, un altro clamoroso fatto politico segnerà la storia piacentina: l’uccisione il 10 settembre 1547 del Duca Pierluigi Farnese, ma questa rimane un’altra storia.

Francesco Sforza temuto condottiero milanese proclamò guerra a Piacenza perché il territorio era parte del Ducato Visconteo di Milano ed i piacentini, con una rivolta cittadina, avevano cambiato la casacca giurando fedeltà ai Veneziani nell’agosto di quel 1447. Da questo cruciale dato si arriverà all’epilogo, con disfatta, dopo soli tre mesi: lo Sforza non scherzava ed i piacentini con quella mossa politica avevano sopravvalutato la protezione ed i benefici che avrebbero ricavato dalla lontanissima Repubblica di Venezia, sconfitta in battaglia. Un anno dopo, con accordo di pace, Venezia cedette allo stesso vasti territori compreso il cremasco.

Ma vediamo nel dettaglio come avvenne l’assedio, con battaglie ed assalti con gravi perdite umane soprattutto di piacentini e lo sfinimento della popolazione portata allo stremo dalla mancanza di viveri, dalla stagione autunnale piovosa e fredda e con i fiumi Trebbia e Po gonfi d’acque che permettevano una buona navigazione dei temuti galeoni della flottiglia navale del conte Francesco Sforza, al soldo del Duca di Milano Filippo Maria Visconti.

Ci atterremo a narrare dalle fonti storiche la parte più triste e crudele, che sembra tratta da una moderna sceneggiatura da film ma che invece è una cruda realtà avvenuta tra il 16 ed il 17 ottobre 1447 nella città di Piacenza. Certi fatti sono molto cruenti e feroci. Stupisce sentire il giorno prima il nemico dare l’annuncio del libero saccheggio, senza regole, però anche inneggiando ad una Piacenza che viene paragonata per bellezza seconda sola a Milano.

È l’alba del 16 ottobre allo squillo delle trombe inizia l’attacco su tutti i fronti con colpi delle grandi bombarde dello Sforza che senza sosta colpiscono Porta Corneliana mentre dal Po i galeoni, con le stesse, bombardano incessanti la parte nord delle mura. Uomini pronti a tutto: arcieri, archibugieri e balestrieri oltre a spade sguainate in mortali corpo a corpo contro i piacentini assediati e decine di uomini a cavallo. La battaglia continua per tutta la giornata, i piacentini vengono sopraffatti e qui comincia quello che la guerra con il “sacco” a libera depredazione comporta per i vinti.

I soldati dello Sforza si buttano sulle case dei nobili e le svuotano dei beni: mobili, vasellame, arredi e ovviamente ori ed argenti ed alla fine di oggetti rubati se ne conteranno alcuni carri oltre a tutto quello che ognuno di quei predatori personalmente aveva tenuto addosso riempendo tasche e sacche.

Le chiese della città anch’esse rapinate di candelabri, ornamenti e calici con profanazioni delle ostie sbattute a terra. Ugual sorte ai tanti conventi di monaci e suore molte delle quali vilmente stuprate. Ma le violenze si riversarono anche su donne comuni e ragazzine e le fonti non risparmiano di informare di ragazzi sodomizzati.

Le case dei nobili dopo esser state svuotate erano fatte atto di vandalismi ed in alcuni casi date alle fiamme. Alcuni sacerdoti furono messi in catena mentre altri assalitori, ormai in preda a questo delirio, aprirono tombe e profanarono i cadaveri, ovviamente di persone di rango le quali potevano esser state sepolte con qualche oggetto di metallo prezioso come anelli e collane. Un inferno di morte per Piacenza ricco solo di furore e ferocia. Intanto anche la cavalleria veneziana ad est della città era stata sbaragliata ed il mantovano Gonzaga alleato dello Sforza s’occupava di far riunire la flotta delle navi sparse sul Po per quell’attacco.

Il giorno dopo si firmò ufficialmente la resa e con questa la pace: la città era ormai deserta e per circa un anno restò in questo stato, al punto che lo Sforza nel 1448 farà un’ordinanza per obbligare i piacentini fuoriusciti a ritornare, con il perdono dei ribelli e l’esenzione completa delle tasse per ben 4 anni e questo atto fu trasmesso alla Cancelleria del Comune di Piacenza.

Una battaglia combattuta su terra e in parte sul Po e vinta dai Milanesi che dal 1450 alla morte di Filippo Maria Visconti elessero proprio Francesco Sforza come nuovo Duca e che tuttavia, leggendo dalle missive dell’Archivio di Stato di Milano con Piacenza, eserciterà il potere con buon sapere e senza eccessivi gravami, forse conscio di quello che già aveva inflitto alla città ed ai suoi abitanti.

Tra le fonti storiche coeve, raggela leggere solo qualche riga dello storico bresciano Cristoforo Da Soldo nella “Istoria Bresciana” che scrive: “furono rubate tutte quante le chiese e reliquie, croci, calici e stracciata ogni cosa. Dello svergognar delle donne sarebbe uno stupore a scriverlo; tutte le donzelle, vergini, maritate, vedove, monache, tutte furon svergognate e malmenate. Non voglio scriver altro perché la pietà e la compassione non mi lascia scrivere. Durò il saccomanno più di cinquanta giorni”.

Una lettera originale di tal Francesco Barbaro scritta dalla città il 30 novembre 1447 tra l’altro dice: “Non scrivo quanto infelicemente le cose siano accadute a Piacenza... Tieni presente che coloro che fan dipendere tutto dal saccheggio e dal capriccio, non han risparmiato né i templi, né le vergini, né i fanciulli, né alcun sesso. Chi può descrivere, soltanto a parole, la strage di quella notte?”.

Se solitamente il sabato per Piacenza è giorno di mercato, quasi una festa per l’aria genuina e frizzante che si respira, per mezzo della sua gente, tra piazza Duomo e piazza Cavalli, quel sabato 16 ottobre 1447 rimane uno dei più crudeli momenti di storia locale e rievocandolo si accende il piacere di quel sano “campanilismo” che ci vuole lavoratori orgogliosi e capaci, sebbene di poche parole.

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Stupri, saccheggi, profanazioni: le crudeltà del sacco di Piacenza del 1447

IlPiacenza è in caricamento