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Domenica, 1 Ottobre 2023
La storia

Un tempo i pellegrini rischiavano di essere travolti dal Trebbia

La testimonianza del 1264 delle disgrazie che potevano capitare ai pellegrini della Francigena

Camminare sulla Via Francigena ai nostri giorni è una mezza “pacchia”: pericolo di “latrones” o brigantaggio pari a zero, pericolo di strade costeggiate da folti boschi con pericolosi animali selvatici sempre zero. Ed è sempre più raro non trovare riparo, cibo e acqua ed il guado di fiumi o meglio lo stesso Grande Fiume anche questo è a rischio zero, infatti troviamo poderosi ponti o comode e veloci barche.

Tutt’al più la massima attenzione va messa nel tratto francigeno Piacenza-Fidenza perché purtroppo la “strata romea” è la trafficata via Emilia e questa sì che è insidiosa, anche se si stanno “studiando” percorsi alternativi “da bassa”, magari lievemente più lunghi ma decisamente più sicuri.

Dal poderoso Registrum Magnum abbiamo letto il documento di “concessionis” (cessione completa) della chiesa e monastero di San Giacomo di Ponte Trebbia detta “Casa di Rocco” (ecclesie Sancti Iacobi de Ponte Trevie que appellatur domus Rochi).

Intanto togliamo il dubbio: non c’entra assolutamente San Rocco (quello che protegge dalla peste) difatti la “domus Rochi” è citata già in documenti di circa cent’anni prima del suo passaggio piacentino che è verso il 1323.

Questo documento latino è del 2 giugno 1264, scritto dal notaio in “palacio domini episcopi” (nel palazzo del signor vescovo) in Curia per intenderci, e il signor “episcopi Placentie” si chiama Filippo (Philippi).

Questa cessione totale dei frati del Tau (antoniani) dei loro beni comprende soprattutto il ponte sul fiume: gettano la spugna, si arrendono alle troppo “inundacionis aquarum” (inondazioni d’acque del Trebbia).

Passano tutto ai cistercensi di Quartazzola di Gossolengo, che già avevano in affido totale il ponte di quell’altra zona sul fiume Trebbia. Ci sorprende abbastanza però questo abbandono dei frati del Tau in quest’area: loro sono storicamente “costruttori di ponti e abili manutentori”.

C’è tanta documentazione di quel tempo che lo attesta fatto sta che a Piacenza mollano la presa, non così invece faranno ad esempio ad Altopascio (sulla Francigena), oppure a Parma sul fiume Taro.

Ci sono documenti che mostrano che nonostante il Taro anch’esso esondi, distrugga, spacchi il ponte, i frati sempre lo ricostruiscono senza tentennamenti, ma sul Trebbia a Sant’Antonio di Piacenza dopo circa un secolo se ne vanno.

Il rettore della chiesa “Sancti Iacobi” e ministro del convento “Poysio” (Poggisio) con i frati dice nell’atto che fa questa cessione perché non hanno più introiti monetari, aiuti, materiali e forze per poter tener in vita questo ponte. Dichiara che “non possit fieri vel refici et manuteneri pons lapidum vel lignaminum supra flumen Trebie” cioè non han più le forze di ricostruire il ponte in parte di pietra e in parte di legno sul fiume Trebbia.

E dà ovviamente una giustificazione: “per quem homines, bestie et plaustra” che rimangono vittime principalmente delle esondazioni del fiume: uomini annegati, animali e grandi carri agricoli (plaustra) carichi di merci o derrate alimentari anch’essi andati dispersi dalla furia delle acque.

Ma non finisce qui, il documento riporta una ulteriore testimonianza: “et specialiter Romipedes et clerici et alii alienigene” cioè specialmente restano vittime i “Romipedes” (i romei, i pellegrini). Il notaio mette nero su bianco le parole di Poggisio, il rettore del monastero, che circa i romei e gli “alienigine” (gli stranieri) che periscono si intuisce che resta un grave problema di coscienza cristiana, in quanto mai più i loro cari ne avrebbero avuto notizia.

Infatti tutti questi romei avevano uno scopo nobile, cioè “volentes visitare limina beatorum Petri et Pauli et sedem apostolicam” cioè diretti ai luoghi santi di Roma e sede papale.

Traduciamo la parte più toccante: “maxime tempore inundacionis aquarum, et sic ob hoc multi homines impetu et violencie ipsius aque dicte Trebie” durante le inondazioni, succede questo fatto verso molti uomini, a causa della violenza e dell’impeto delle acque di Trebbia travolgenti, e per questo fatto “alie res pereunt vel hactenus perierunt”.

Molti uomini forestieri, pellegrini, mercanti con i carri, le loro bestie sono morti travolti e molti lo sono ancora fino ad oggi (hactenus perierunt).

La chiesa di San Giacomo con il suo ospitale dista molto poco da questo ponte (quod parum distat ab ipsa) ed anzi “pontem sytum iuxta ipsam ecclesiam” è anzi molto vicino (iuxta).

Ovviamente Bernardo “abbati monasterii Sancte Marie di Ponte ordinis Cisterciensis” (parliamo di Quartazzola) prende tutto in custodia, di sana pianta, e i frati del Tau (antoniani) se ne andranno altrove, così che anche “ipsam ecclesiam dicto monasterio unierunt”.

Tra i beni che vengono ceduti ci sono appunto: tutte le possessioni con le terre, oggetti da lavoro, “instrumenti publicis” atti notarili, privilegi e “indulgenciis”, diritti totali sui beni mobili e immobili, corporali e incorporali (anche di diritto ecclesiastico).

Da quel 1264 la cura del ponte di pietra e legno sul fiume Trebbia passa ai monaci cistercensi che hanno conferma di tutto questo in un originale atto papale, datato 15 maggio del 1266 scritto a Viterbo da papa Clemente IV.

Il papa conferma tutti i beni della chiesa di San Giacomo presso il “pontem sytum iuxta ipsam ecclesiam in strata publica super fluviam Trebie” all’abate di Santa Maria di Quartazzola di Gossolengo.

Da quel che si capisce è che, nonostante il fiume sia sempre esondato, il ponte sia sempre stato ben ricostruito solido (qualche dazio c’era ovviamente), e di morti annegati non ce n’è più traccia nelle documentazioni successive. Per “Romipedi et alienigeni” la strada era spianata, senza più pericoli, ma si fa fatica ad immaginarlo.

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