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Svelata l’origine dell’enigmatico motto “Forse che sì, forse che no"

Scolpito su un palazzo di via Campagna. Risale al 1495, coniato alla corte dei Gonzaga

In precedenti puntate della rubrica tratta dal libro "Sei anni di vita piacentina (1894 -1899) giorno per giorno", a cura di Corrado Sforza Fogliani e di Antonietta De Micheli, avevamo fornito interpretazioni sull’enigmatica frase “Forse che si, forse che no”, che si può leggere scolpita su una pietra dell’antica facciata di mattoni del sul vasto edificio al civico 35 di via Campagna, d’angolo con via san Tomaso.

La collaborazione di Lucia Genesi della Biblioteca comunale Passerini Landi ci ha fatto  rintracciare presso la civica Biblioteca Gambalunga di Rimini, copia della rivista “l’illustrazione Italiana” del 3 ottobre 1909, che evidenzia come il motto sia raffigurato nel labirinto affrescato nel soffitto di una delle sale di Palazzo ducale di Mantova, già reggia dei Gonzaga; ma esso, si legge nell’articolo, risulta inciso sopra la pietra angolare di una vecchia casa di Piacenza, pare fin dal principio del XVII secolo. Il proprietario della casa adottò il motto mentre era in attesa d’un responso dei magistrati sulla possibilità di costruire un balcone, innovazione alla quale si opponevano le monache del dirimpettaio convento di Santo Spirito.

Si legge nel citato articolo del 1909 che il motto fu identificato dalla scrittrice Eugenia Levi nel corso di una ricerca in una Biblioteca di Monaco di Baviera (Bayerische taatsbibliothek, rar. 878/3), poi confluita una raccolta di liriche italiane dei secoli XVI e XVII. Sono i versi iniziali di una frottola musicale di Marchetto Cara, cantore dei Gonzaga fin dal 1495, i cui canti «s’erano resi tanto popolari a Mantova che alcune volte, prima ancora che fossero intesi alla Corte, si udivano cantare per le pubbliche vie dal popolo»; essa comincia con le parole:

Forse che sì forse che no

el tacer nocer non po.

Chi ha bon vento drizzi el trasto (vela)

c’hio coi remi me ne vo ..,,

ecc...

via Campagna, 33-2

Il sovrano di Mantova Francesco II Gonzaga (1466-1519), marito di Isabella d'Este adottò la frase sibillina nei primi anni del Cinquecento come espressione gergale e anche come composizione musicale.  

La raffigurazione del labirinto recante nei lacunari l’ossessiva ripetizione del motto (Forse  che sı` forse che no), esprimerebbe le numerose incertezze legate alla fragile condizione dell'Uomo, inconsapevole del proprio destino. La decorazione fu eseguita da Lorenzo Leombruno (1489-1536); originariamente collocata nel palazzo San Sebastiano (1506-1508) di Mantova. Poco meno di un secolo dopo (1601) il soffitto stesso venne trasferito nel palazzo Ducale dall’architetto Antonio Maria Viani (1555 -1635), a decorare il cielo di una delle sale dell’appartamento del duca Vincenzo I Gonzaga (1562-1612). In quell’occasione il fregio venne anche arricchito con una scritta esterna, evocante la terza spedizione del duca contro i turchi a Canessa (1601) e con una frase centrale, riferita al significato mitologico del labirinto.

Gabriele d’Annunzio conobbe l’enigmatico detto proprio a Mantova dove lo vide imbrigliato nel soffitto ligneo del palazzo Ducale. Nel 1909, quella frase diverrà non solo il titolo del suo nuovo romanzo, ma l’emblema stesso del labirintico destino nel quale si dibattono i protagonisti.

Riguardo alla nostra città alcuni studiosi hanno ipotizzato che l'epigrafe sia stata collocata al tempo di Napoleone, quando dall’altra parte di via San Tomaso vi era il grande Monastero femminile dello Spirito Santo, demolito nel 1967/68. Scrive Cesare Zilocchi nel “Vocabolarietto di curiosità piacentine”, edito dalla Banca di Piacenza, che tutto scaturì da una controversia per un balcone fra le monache di un convento ivi allogato (dal 1615 al 1810). Ma il popolino ci ricamò una propria versione più salace. Dietro le mura del chiostro, una spregiudicata badessa organizzava allegri festini. L’autorità ecclesiastica aprì allora un’inchiesta. Forse perché erano calunnie senza fondamento, forse perché nella pruriginosa vicenda erano implicati nomi eccellenti, l’indagine finì in niente ma ne fa tuttora memoria la curiosa epigrafe.

Il motto è ricordato anche in un capitolo del volume “Piacenza. Storie di una città” dell’architetto Manrico Bissi, edito dalla Banca di Piacenza, nelle cui pagine è richiamata la diatriba del balconcino citata da Zilocchi. La successiva chiusura napoleonica del Monastero, rese nulla tale opposizione; i proprietari del palazzo poterono così realizzare il loro affaccio (oggi scomparso).

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Svelata l’origine dell’enigmatico motto “Forse che sì, forse che no"

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