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Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Andar per terrasanta

Sì, anch’io sono andato nella terra dove i contrasti si accentuano fino a toccare gli estremi della vita e della morte. È questa la terra delle nostre radici culturali prima ancora di quella greca e romana. La terra dove ha avuto origine il vecchio e il nuovo testamento, che già con questo termine vuole esprimere un fatto unico nella storia dell’uomo. Una testimonianza, un patto, prima scritto nel libro dei libri e poi vissuto da un popolo che con Dio ha sempre avuto un rapporto speciale, di tipo privilegiato. Una alleanza che si traduce poi in una scrittura, miracolosamente incisa su pietra, chiamata punto tavola della legge. I cosiddetti comandamenti che bisogna seguire per liberarci dalla zavorra della condizione umana, onde salire più in alto e perdersi nel mistero di un cielo che attende, apparentemente immoto, un segnale di crescita e speranza. Una terra infine dove ogni cosa non trova uguali in altre parti del mondo a cominciare dalle proporzioni con cui noi siamo abituati a valutare le cose terrene. Perché nulla è qui rispettato. Bibbia e realtà sono in questi luoghi in stridente contrasto. Tutto sa di mistero e nulla sembra scontato secondo le categorie umane. Per meglio spiegare queste contraddizioni cominciamo dal fiume Giordano. Un fiume questo?  Non certo per chi è abituato a vedere i grandi fiumi, tipo il Nilo, o anche i piccoli come il nostro Po. Perché il fiume dei fiumi dove ancora sono sedimentati nell’immaginazione del cuore i volti di Giovanni, il Battista chiamato anche il Precursore e poi quello di Cristo il Salvatore, non è altro che un modesto corso d’acqua, quasi un torrentello. Immaginazione e realtà sono in evidente antinomia. Da una parte sta la storia biblica e quanto scritto a proposito della fede, dall’altra un termine di raffronto che se non ci fosse la Bibbia, difficilmente potrebbe ancorarsi ad una fede certa. Nel suo decorso comunque, e questa è un’altra sua contraddizione, il fiume mai si arresta. Procede calmo e tranquillo per quasi 350 Km, dividendo il confine di Israele con la Giordania. La sua forza non sta nella portata d’acqua, ma in un misterioso disegno che proviene dall’alto e che diventa simbolo di vita e anche di morte. Dal lago di Tiberiade muove le sue modeste onde e poi ridotto quasi a canale si getta in un mare che non si sa cosa sia. Non essendo né mare né lago, per quanto possa essere piccolo nel primo caso e abbastanza esteso nel secondo. In quel luogo Il Giordano muore nel vero senso della parola. Si getta infatti in un’acqua quasi ferma e tanto salata che non essendo compatibile con ogni forma di vita non può che chiamare Morto la sua stessa tomba acquea. La corsa del fiume si sviluppa, altra curiosità, in lieve discesa in quella falda terrestre che tocca il punto più basso, proprio nel suo punto d’arrivo. Che è oltre 400 metri sotto il normale livello di tutti gli altri mari, con un’acqua non utilizzabile se non per qualche turista che vuole sperimentare la sua densità antigravitazionale, oppure per chi vuole curare alcune malattie della pelle. Trattasi allora di un simbolo di morte che diventa però simbolo di vita per quell’ altra vita promessa che non è più su questa terra. Come se la maggiore depressione esistente al mondo, fosse indispensabile per vedere le cose da un altro punto di vista. Come se il cielo non si potesse cogliere nella sua alta irraggiungibilità se non toccassimo il basso, l’infimo, l’estremo precipizio. Tutt’attorno vive e muore il deserto. Dune e rocce in parte sabbiose in parte calcaree, spazzate spesso da un vento, a volte sferzante, nelle cui risonanze sembrano sentire risuonare i canti di David da ascoltare in religioso silenzio. Il colore della sabbia appena screziato da qualche sfumatura ocra o rosacea nasconde i tesori di secoli, costuditi nelle sue grotte che acuiscono il mistero di una inospitalità che invece ti prende per trascinarti lontano dalle consuetudini, che nella loro comodità finiscono per esaurire lo stimolo esistenziale. In mezzo un’oasi: En Ghedi da cui scaturisce , non si sa come e perché una sorgente di acqua chiara quasi trasparente. A piccole cascate, l’acqua scende a miracol mostrare. Lo sanno bene i beduini della zona che vivono di quelle poche cose che la terra ed i pochi armenti possono dare per la loro sopravvivenza. Trattasi di qualche capra, pecora, pochi cammelli e gatti selvatici, tutte specie animali che sopravvivono ai leoni oggi scomparsi. I beduini dicevo. Sono esseri liberi che preferiscono la tenda o la loro casupola di frasche alle comodità urbane. Una ennesima contraddizione questa. Da una parte la libertà nomade, dall’altra la convivenza urbana con tutte le sue frustrazioni. Confesso: i beduini mi stimolano. Essi interpretano al meglio il senso del luogo. Meglio ancora l’anima loci. Da questo punto di vista sono gli uomini oggi più vicini alla Bibbia e interpretano nel modo più antimoderno quello che noi crediamo abbiano vissuto i Patriarchi ed i Profeti.  Eredi di Ismaele, pregano vivendo nel loro errare libero e senza esigenze. L’unica loro comodità un cammello. Altrimenti provvedono i loro piedi callosi temprati dal loro peregrinare su quelle distese di pietra e sabbia di tanto in tanto risvegliate da fiocchi di lentischi e di tamerici che non fanno altro che accentuare il brullo desolante e apparentemente inospitale. Ai beduini si deve inoltre una riconoscenza storica, scientifica e religiosa. Sono loro infatti che hanno scoperto in una delle tante grotte esistenti nelle alte pareti di roccia e che appaiono alla vista come tanti luoghi di sepoltura, i famosi rotoli del Mar Morto. Una serie di pergamene che verosimilmente nascosti dagli Esseni perché non cadessero nelle mani dei conquistatori romani. Le quali una volta studiate e interpretate ( ci sono voluti quasi 50 anni) confermano la validità di quanto noi sapevamo dai vangeli sinottici. Ho detto che questi beduini pregano e nei loro atti di fede lasciano il cuore libero di interpretare il silenzio eloquente che li circonda, onde lasciarsi conquistare dalla meraviglia della natura che può essere colta solo da chi ha l’animo sgombro da troppi impedimenti. Dagli abituali condizionamenti del vivere che impediscono di trasformare la realtà in un sogno, come sa bene chi è capace di osservare con occhi infantili.  Quando la pelle è ambrata, come il colore delle rocce e abbrustolita dai raggi del sole che sorge troppo presto e tramonta altrettanto troppo precocemente lasciando striature rosee, miste a bagliori rosso fuoco nell’orizzonte lontano. Oppure quando la pelle arsa e riarsa dal caldo opprimente del giorno trova poi il suo refrigerio nel buio freddo della notte, diventando per difesa, irta e spessa. È il tempo questo in cui la terra tace, mentre parla il cielo con il suo trapunto di stelle che indicano agli occhi la strada da seguire. E poi inducono le labbra a pronunciare, per ogni musulmano, i novantanove attributi del misericordioso Allah. Negli occhi purificati dal deserto la terra arida del deserto, diventa allora, per questi beduini, la terra del latte e miele che scorre a fiumi come anticipazione di quello che avverrà nel Paradiso in cui anche gli alberi da frutto non avranno più bisogno di soddisfare quella sete del corpo trasformata ormai in sete di Dio.
(continua) 

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