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Venerdì, 29 Marzo 2024
Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Che schifo la vita

Siamo in un periodo di eutanasia attiva o passiva o di suicidio assistito. Una condizione questa che un tempo non era così presente, come adesso. E comunque se esistita, era legata a condizioni estreme, sia sotto l’aspetto fisico che psicologico. Tipo una grave malattia che aveva esaurito le possibilità curative, oppure le condizioni di dolore fisico o di sofferenza psicologica, quale la depressione, che toglievano alla vita quella sua forza, spesso illusoria, di vedere le cose sotto il profilo positivo. Una condizione dello spirito questa che colorava di rosa qualsiasi situazione, impedendo al grigio ambiguo e al nero funereo, per rimanere fra i colori, di far parte della tavolozza dell’esistenza. Tuttavia, per non riferirmi solo alla situazione odierna, anche in altri periodi storici esisteva questa condizione di morte, che al di là delle cause prima elencate, si faceva strada nell’animo umano.  Ce lo ricorda il Leopardi con il suo: è funesto per chi nasce il dì fatale. Ma oltre a lui e prima di lui, lo dimostravano le grandi opere come la Divina Commedia, con la selva dei suicidi del tredicesimo canto dell’inferno che così si presentava: non di color di verde ma di color fosco.  Oppure l’Eneide, quando Enea scendendo nell’ Averno incontra le anime di coloro che in luce in odio avendo, avevano indirizzato il loro taedium vitae contro se stessi. Oltre a questi esempi, anche tutto l’Ottocento, in fatto di vocazione alla sconfitta nei confronti della vita, non scherzava. Era quella la condizione che animava molti poeti e scrittori della Scapigliatura. Affetti da una duplice malattia: la esaltazione della gloria e nello stesso tempo quasi come connaturata condizione, il cupio dissolvi.  Vale a dire lo sconforto estremo per l’incapacità di sopportare la sconfitta nei confronti dei loro unici obiettivi: la gloria o la fama. Ebbene se queste sono le premesse, non c’è dubbio che oggi la situazione verso l’autodistruzione fisica è mutata ed in peggio. A dimostrazione che quello che possiamo definire in termine improprio una moda, ha fatto i suoi proseliti. Le ragioni sono tante. Forse la più importante è la condizione del vivere di oggi. Dove tutto si svolge in terra e dove ogni cosa deve essere colta nella sua espressione di dare piacere, fino a generare l’impressione, nell’uomo, di essere onnipotente. La mancanza di una vita eterna, infatti, intesa in base al credo religioso, toglie all’uomo la seconda possibilità, se la prima, vale a dire la vita sulla terra, tende ad esaurirsi.  Con in più, la consapevolezza dell’angoscia esistenziale, secondo la quale tutto finisce dentro e fuori del nostro piccolo io. Ho detto che le ragioni sono tante e a queste associo anche l’etica del vivere. Difficile quantificare una cosa e l’altra. Ma entrambe sono importanti e si intrecciano fra loro. Infatti se la ragione è l’etica del comportamento onesto, a sua volta l’etica è la ragione del pensiero.  Piaccia o no, entrambe entrano di prepotenza nella vita e l’ancorano al tempo assegnato ad ognuno di noi, con l’unica possibilità di doverlo cogliere o subire per quello che è. Accettare il tempo allora, indipendentemente dal suo contenuto in termini di salute per l’uomo, sembra oggi incrinarsi verso il suo opposto. Lo dimostrano le cifre riguardanti la non accettazione della vita, che definiamo eutanasia in tutte le sue varianti. Eccole.   Dal 2003 i casi della dolce morte sono stati 235. Ma nel 2011 sono lievitati ad oltre 1000, per poi salire nel 2018 a 2350. Ma non è tutto. Fra queste cifre di eutanasia, diciamo controllata, si fanno strada in questi ultimi tempi, quei casi di richieste di morte, per ragioni  così discutibili che non rientrano nella condizione finora  accettata da buona parte delle comunità scientifiche, sulla base della natura del o dei  mali.  Il risultato è che seguendo questo trend in caduta libera, si stanno verificando casi davvero inquietanti, come quello di Godelieva De Troyer uccisa (questo il termine giusto) per una cosiddetta depressione a 65 anni. L’autore?  Un medico, il dottor Wilm Distelmans, verosimilmente votato più alla medicina di morte, che a quella di curare sempre e comunque la vita.  Con l’aggravante, non da poco, che i parenti della donna non erano stati informati. La moda della buona morte allora si sta estendendo a macchia d’olio, specie in quelle nazioni come il Belgio dove la legislazione è più permissiva. Cosicchè i nuovi casi non riguardano gli anziani affetti da malattie, cosiddette incurabili, (ma chi l’ha detto che la depressione non sia curabile?) ma si sono estesi, secondo il condizionamento oggi ben propalato dai media spesso per motivi economici, alle giovani generazioni.  In questi casi allora la malattia spesso non c’entra, sostituita dalla sua parvenza. In pratica dalla sua rappresentazione nella mente di questi soggetti. Il primo caso da ricordare riguarda Noa Pothoven che a soli 17 anni si è lasciata morire. Oggi un nuovo caso coinvolge Kelly, una giovane di 23 anni, che bella e sana, soffre del male di vivere. Insomma per quanto in lei non vi sia alcun elemento dantescamente tetro, da gridare vendetta contro la natura alla guisa di un Leopardi, mentre tutto deporrebbe per abbracciare e lasciare scorrere il tempo come tutte le altre sue coetanee, dove soddisfazioni e delusioni si alternano in quella strana cosa che è la vita,  lei non ci sta ad accettare questo modello affidato al  destino di dover e voler vivere. Cosicché al posto di  una valutazione normale della  vita e di se stessa, ne associa un’altra, soggettiva e impropria, che la conduce all’incapacità di intendere e di volere. Il tutto attraverso la falsa rappresentazione visiva di se stessa. Infatti, della sua condizione di ragazza di aspetto avvenente, come è comune nella sua fascia di età, quando nessuna malattia è in grado di offuscare la bellezza che la natura regala ai giovani,  non si cura per niente di questa sua avvenenza, ma addirittura si inventa la condizione opposta.   Lei non   si vede bella, anzi si sente brutta. Brutta?  Ma questo è un eufemismo.  Ogni qual volta infatti, si mette davanti allo specchio, nonostante una sorriso affascinante e la sua cascata fluente di capelli biondi, lei si sente un mostro. Non vale a farle cambiare parere la presenza della sorella e quella del fidanzato. La dismorfofobia di cui soffre, che in medicina costituisce una intolleranza nei confronti di eventuali difetti del corpo, anche se pura invenzione, per lei diventa una fissazione. L’esito?  Un effetto devastante sul suo fragile equilibrio psicologico. Non valgono le raccomandazioni da parte dei parenti od amici, secondo cui la realtà è completamente diversa e che la sua è solo un errore di rappresentazione. Né fino ad ora sono valse alcuni vaghi sostegni psicologici tesi a rimuovere una condizione di timidezza estrema che con il solito termine inglese viene chiamata crippling shyness.  Ebbene stando così le cose, urge un presa di coscienza da parte nostra, che si esprime nel non voler accettare la richiesta di morte avanzata dalla giovane. La quale si rifiuta perfino di accettare ogni terapia, ritenendo la sua condizione incurabile. La conclusione è che la medicina non può soccombere alle mode e alle varie disgrazie che capitano, senza essere in grado di intervenire con l’intento di curare. Dunque è auspicabile che la medicina come arte, unita alla ragione e all’ etica debbano trovare un accordo. Una alleanza per difendere la vita, costi quel che costi. Ma parlare di costi, mi rendo conto, che può spingersi su una cattiva strada, la quale ci porta verso quella condizione del vivere odierno, che mette al primo posto, come unico valore, l’economia e non si cura della ragione e men che meno dell’etica. Ammazziamola pure allora la giovane e avvenente Kelly, ma dimettiamoci dalla condizione di esseri umani e anche di medici.      

       

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