“Ci metterei il naso“
L’espressione in sé è virgolettata, per questo non spiega inizialmente, quello che mi affretterò a dire. E’ comunque uscita da un colloquio fra commensali. Si parlava di…. No, no, così non capirete. Devo fare un passo indietro per raccontare i molti particolari di un incontro cerimoniale che ha riunito a Palazzo Farnese, molti cavalieri e altrettante dame. Ma non preoccupatevi se così dicendo, la cosa non vi sembra molto chiara. Lasciatemi allora proseguire. Infatti non si tratta di fare un passo indietro nella storia, semmai qualche passo avanti. Anche se ho usato termini come cavalieri e dame che ci rimandano ad altri momenti. Ma credetemi non c’è nessun mistero e soprattutto nessun conflitto anacronistico con il passato. Trattasi invece di storia talmente contemporanea che ancora non è passato troppo tempo dall’evento che mi accingo a narrarvi. E che ha visto riuniti cavalieri e dame tutti in abiti moderni. Senza ricorso i primi a redingote e giustacuori e le seconde a dotazioni di filiere di gioielli su colli allungati per meglio essere circondati da ori e pietre preziose. Inoltre senza ricorso a sontuosi strascichi vestiari, lambenti i marmi dei pavimenti. E poi di cavalli nemmeno l’ombra. Detto questo, se ancora siamo nel vago, entro più decisamente a chiarire l’equivoco, descrivendo l’evento. Si trattava di una riunione, non solo culturale, ma celebrante un Ordine i cui rappresentanti sono chiamati quindi cavalieri e dame. Ho parlato di un Ordine e lo nomino senza ulteriori indugi. Trattasi del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio che si è riunito nella nostra città con tutti i più alti esponenti di questo Gran Magistero, considerato a ragione veduta, il più antico fra gli ordini cavallereschi esistenti. Grandi rappresentanti dicevo sia a livello italiano, che regionale ed infine piacentino. Riguardanti tutte o quasi le più alte personalità civili , militari e religiose. Quest’ultime presenti per onorare l’elemento spirituale e di fede cristiana di cui l’Ordine si prefigge scopi di tutela e difesa. Ad officiare la Santa Messa, primo momento dell’incontro, la presenza di Sua Eccellenza il nostro vescovo, Gianni Ambrosio, coadiuvato da numerosi sacerdoti e diaconi e dai rappresentanti della Congregazione dello Spirito Santo in cappa rossa su veste nera. Sede infatti della liturgia e della Congregazione, la chiesa di San Dalmazio di via Mandelli. Tempio ducale e regale per disposizione di Carlo III e che a Piacenza( parlo della chiesa) quasi nessuno conosce. Mi accorgo che non vi ho fatti i nomi di questi alti esponenti del Sacro Ordine, e dei prestigiosi invitati e spero di essere perdonato. Ma il taglio del mio articolo è un altro, quello di spiegare il titolo. Ebbene il tutto nasce quando dopo la celebrazione liturgica, l’Ordine si sposta a Palazzo Farnese. Il motivo? Il restauro del busto del principe Giovanni, Andrea, Angelo, Flavio, Comneno discendente dalla stirpe imperiale di Bisanzio che essendo privo di discendenza, dopo più di dodici secoli dalla fondazione ( avvenuta nel 456), dovette cedere il Gran Magistero dell’Ordine al duca di Piacenza- Parma, Francesco Farnese. La data storica, il mese di gennaio 1698, Bene, di detto principe esisteva un busto in marmo ingiallito collocato ai tempi nel castello farnesiano, prima della sua distruzione. Ma con il castello anche il busto aveva subito l’insulto più che dei tempi, degli animi eccitati ad opere biasimevoli. Come da sempre avviene nella storia, quando per una serie di ragioni, i grandi uomini poi diventano piccoli e la polvere si sostituisce agli altari. Lo stesso busto, dicevamo, non solo ha dovuto subire la polvere del tempo che muta i primitivi colori del materiale costitutivo , in questo caso il marmo bianco, in una giallastra tinta invecchiata a dimostrazione che tutto alla lunga si altera. Causa una patina che posandosi sulle parti esterne e poi introducendosi, all’interno scava e allarga i microscopici pori, creando vie di passaggio obbligato legate a quell’evento temporale che indebolisce e incancrenisce ogni materia organica. Marmo incluso. Ma in questo caso c’era qualcosa in più. Un elemento legato non solo all’incuria, ma alla cieca volontà distruttiva da parte dell’uomo che, senza ragione e solo per vilipendio, ha pensato bene, anzi male ,di fare rotolare il busto lungo una scala. Il risultato: ammacchi qua e là, ma soprattutto una ferita grave. La perdita pressoché totale, della parte più sporgente del volto, il naso, frammentatosi nella folle discesa tutta urti, salti e sobbalzi. Recuperato il busto che in realtà si riduce ad una faccia di una rotondità lunare e solare insieme, da parte del Delegato regionale del suddetto Ordine, l’avvocato Corrado Sforza Fogliani che assieme a Monsignor vescovo, al nostro sindaco Dosi è il solo che cito in quanto da sempre più che parlare, fa, mentre gli altri più che fare, parlano e spesso a vuoto. Dunque trasportato il suddetto busto nel Museo civico di Palazzo Farnese, il restauro è diventato d’obbligo. Bisognava rimuovere non solo la polvere, con il ricorso a spazzole fini e pennelli delicati, ma consolidare il marmo attraverso un accurato lavaggio delle sue porosità con acque demineralizzate miste a resine fluide, non occludenti . Quindi passare poi alla ripulitura esterna con particolari materiali, onde ridare il colore bianco del primitivo, candido marmo, in sostituzione del giallo paglierino dell’invecchiamento. Questo ritorno allora all’antica purezza, vincendo l’insulto del tempo, fa pensare come sia stupefacente considerare la capacità di un buon restauro, che riesce far recuperare l’antica giovinezza ad una materiale scultoreo, cancellando secoli di vecchiezza decrepita che lasciata a sé stessa porta inevitabilmente ad un misero e progressivo degrado. Così dicendo e facendo, parrebbe tutto bene. Ma sorge la questione di quel naso amputato causa la sua frammentazione in minuti e non più riutilizzabili frammenti, dopo la fatale caduta. A questo punto , vale la pena descrivervi la faccia del reperto. Larga e cascante nelle gote per l’adipe in cui affondano due profonde pieghe che circondando il naso mancante e la bocca, esse paiono perfino liete nello spingersi visibilmente in profondità in quel soffice e morbido strato di opulenza, nobilmente ostentata. Messa ancora meglio in evidenza nel mento solcato da una depressione nel suo centro che dà l’impressione di un putto troppo infarcito di rotondo benessere. Nel sottomento poi, un cuscinetto di adipe liscio e cedevole induce la voglia di toccarlo con l’intenzione di sostenere quella parte cascante, in barba alla forza di gravità. Se la bocca ha labbra carnose che si serrano al centro in una lieve protuberanza da lasciare intravvedere un senso di sicurezza araldica misto però ad un tocco di arroganza, la fronte è larga e abbastanza ambia se non fosse occupata nelle sue parti laterali, da una selva di ricadenti e pluriavvolti riccioli a formare barocche ed esagerate spirali, incornicianti tutto il viso. Per poi ricadere sovrabbondanti sulla nuca senza però perdere vaporosità e consistenza. Anzi accentuando spire e vortici man mano che la ricca capigliatura, in realtà una plateale e teatrale parrucca, scende verso il basso per trovare il suo punto di ricaduta finale sul collo e le spalle, che per la verità si intuiscono, ma non si vedono. Il carattere è quello di una criniera leonina se l’entità del crine, fosse meno arricciato e più morbidamente sciolto. Leone dicevamo, ma meglio sarebbe definire il viso un Re Sole , non tanto per la somiglianza col Re ma col Sole. E cosi fra luna e sole lo abbiamo inserito fra i pianeti, con esclusione delle stelle, perché alla distanza con cui le vediamo, appaiono troppo appuntite. E gli occhi? Lievemente asimmetrici e indecisi se spingersi ad indagare le cose che stanno ad essi di fronte, non denotano eccessiva curiosità, ma una vaga intenzione di tendere verso l’alto. Come per disperdersi verso pensieri più aerei a dimostrazione di una certa insofferenza o fastidio a concentrarsi troppo sulle cose del mondo. Forse un bisogno di evadere verso altri lidi, più spirituali, se non ci apprezzasse il contrasto con tutta la fisicità straripante del viso che, nella sua opulenza di forme, lascia piuttosto intravvedere un malcelato piacere terreno. Bene, ma il naso? Mancante. Una grande cicatrice percorre tutta la parte centrale del viso. Ma trattasi di una cicatrice larga quanto l’antico naso. Una macchia nera allargata alla base e risalente verso l’alto riducendosi un po’ in larghezza. Ma appena un po’. Trattasi di un’amputazione che in quel contesto di carne setosa e lanosa , nella constatazione di una presunta tendenza verso il piacere del cibo, ispira una certa tenerezza, causa l’ espressione d’insieme, pacificamente compiaciuta e poco avvezza all’arroganza del dominio. Eppure quell’amputazione ci infastidisce. Ci priva di un elemento morfologico che verosimilmente potrebbe confermare l’impressione avuta, ma potrebbe anche smentirla, se il naso fosse adunco alla Dante per intenderci. Con tutto il carico iroso e vendicativo del” ghibellin fuggiasco”. E poi diciamocelo, quella macchia nera, ruvida e grezza che contrasta con la cute liscia, bianca e glabra del rimanente viso, offende doppiamente. Troppo contrasto col colore bianco del marmo. Troppo rimembrante una offesa subita, rispetto alla tranquilla aria di complicità col benessere e le succose gioie della vita. Dunque di questo si discuteva fra nuovi commensali di tavolo e forchetta, nella parte conclusiva dell’incontro. Gente di Bologna e di elevata nobiltà di casato, di sentimenti e di vocazioni culturali, , simpatici come lo sono gli emiliani di antica tradizione felsinea. Coi quali è stato facile, fare amicizia e tessere gli elogi della loro città in cui risiede la più antica Università del mondo. E coi quali, parlando come si fa a tavola si sono toccati più temi, l’arte in particolare. Argomento questo dove hanno dimostrato particolare competenza per antica frequentazione di consolidate abitudini di casato, che qui non voglio affrontare in quanto il discorso ci porterebbe molto lontano. Ritornando al conversare, succede che impressioni e parole cadono sul faccione scultoreo, detto questo con simpatia, del principe Comneno, in riferimento alla componente estetica del restauro. E fra un’opera d’arte e l’altra, citate per meglio avallare la tesi finale, ecco sorgere la domanda: ed il naso? E poi. E’ giusto lasciarlo amputato, per rispettare la logica di un restauro modernamente conservativo, che non deve cancellare nulla dell’ingiuria del tempo se non la semplice pulitura e il consolidamento del materiale, oppure… Oppure senza alterare l’originale, senza creare un falso per quanto parziale, senza insomma voler ingannare il visitatore, si potrebbe….. Si potrebbe creare se non un falso, una accettabile modifica dell’originale . Ovvero un falso tanto visibile da non poterlo considerare tale. Nel caso specifico, una aggiunta che tolga il senso di quell’amputazione antiestetica e in palese contrasto col resto del viso. La realizzazione insomma di una finzione, ricorrendo ad un materiale modernissimo e quindi visibilissimo nel suo integrarsi a completare una ingiustificata assenza. E ancora. Se, tutto ciò venisse fatto siamo sicuri che, rappresenterebbe uno scandaloso arbitrio? Si arriva al dunque. Un naso di plastica al pari di un intervento di plastica correttiva per un viso ingiustamente deturpato per riconsegnarlo alla sua vera natura di compostezza nobiliare, potrebbe allora essere la soluzione? Si insiste. Il rimuovere un lutto che sembra estraneo alla tranquilla espressione di una pacifica e consapevole e compiaciuta nobiltà, non rappresenta un contrasto offensivo per lo stesso visitatore, obbligato a vedere quello che non ci dovrebbe essere? E che ricorda un fatto spregevole di quel rotolamento rovinoso legato alla demenza di un uomo o di più uomini, i quali soli potrebbero essere consegnati ai posteri, loro sì, privati di qualche loro connotato, se mai diventassero busti. Ma il loro demerito morale, cosa c’entra con la nostra faccia e con la sua serenità regale , amputata suo malgrado in quella parte del viso che esprime senso di appartenenza, piacevolezza verso i piaceri della vita, in un vago tentativo di visione estetico spirituale non del tutto convincente? Sì, sì, ci metterei il naso fu la frase del mio vicino di tavola, col quale l’intesa si era fatta via via più intensa. E questa frase diventa allora causa ed origine di questo articolo. Troppo giornalisticamente bella, troppo coinvolgente sia nel suo significato reale , che nella sua espressione metaforica, infine troppo condivisibile per affidarla all’attimo che fugge e non fissarla su uno scritto.