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Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Consigli (non richiesti) al nuovo sindaco

La crisi della politica è sotto gli occhi di tutti. La disaffezione è dilagante e sta diventando un epidemia che tiene lontano la gente da quello che con disprezzo si definisce, il palazzo. Vale a dire il potere che si concentra sulle varie istituzioni, comunali, regionali e nazionali. Quel potere costretto a mendicare il voto degli elettori quando serve, quindi in occasione delle elezioni, mentre poi , superato lo scoglio della verifica da parte del popolo, per questo chiamato bue,  si può concedere il lusso della dimenticanza.  Allorché le promesse fatte, diventano un vago ricordo, mentre ogni nuova memoria si concentra sul potere  di chi si è acquartierato nelle beate stanze, di quel palazzo,  cui prima accennavo, che per gli anni del mandato popolare   concede il privilegio di manifestare un’autonomia altezzosa e distaccata dai problemi del paese. Inteso quest’ultimo  non solo come stato, ma come città o anche come borgata   dove esiste il comune, il campanile, il bar e poche altre cose. Se la crisi è come dicevo sotto gli occhi di tutti, non altrettanto lo è la soluzione del problema. A questo riguardo, parlando  di recente  con alcuni amici, ho ricevuto le proposte  più diverse. Di queste, la mancata partecipazione alla cosa pubblica, quindi l’assenteismo neghittoso, è stata la risposta  prevalente.  Dunque non partecipare al voto e dimostrare la propria contrarietà isolandosi da ogni invischiamento politico,  rappresenterebbe per  queste persone,  deluse e molto arrabbiate, l’unica soluzione possibile. Ma non per altri, più combattivi anche se minoritari, che invece  preferirebbero abbattere fisicamente  il palazzo con tutti  i suoi occupanti  in fatto di stanze e poltrone. Fantasie. Una rivoluzione questa che difficilmente e fortunatamente sarebbe  traducibile   nella realtà e che è da consegnare esclusivamente  alle   parole,  per il semplice fatto che siamo italiani, quindi amanti della sola protesta verbale. E poi, anche perché. come disse un tempo il giornalista e umorista Flajano, nelle nostre latitudini, di rivoluzione se ne può parlare,  ma non per  attuarla. Il perché?  Troppa fatica e poi  a causa che ci conosciamo un po’ tutti. E allora? Ci si potrebbe accontentare di individuare i nemici da combattere, ricorrendo al buon senso. E poi procedere di conseguenza. Ebbene,   questo allora  è il consiglio, non richiesto, che rivolgo al  nuovo sindaco, invitandolo a considerare che, uno dei massimi e più pericolosi nemici da combattere è la burocrazia. Quell’organizzazione di individui che coordinati in una struttura gerarchica dovrebbe fare ben funzionare la macchina sia pubblica che privata al fine di consentire  il migliore servizio ai cittadini.  Sia nel primo caso riguardante  i cittadini sudditi, che  nel secondo  rivolto ai cosiddetti  azionisti o soci del comparto privato. Detto così, tanto lo stato che la grande azienda dovrebbero funzionare secondo il criterio dell’efficienza per  soddisfare al meglio ogni esigenza della vita di ogni povero cristo, quale noi siamo. Insomma ogni persona giusta al posto giusto, parrebbe la soluzione accettabile . Che tradotto in volgare, vorrebbe dire, precisione e ordine. Questo in teoria. Nella pratica, questa macchina che chiamiamo con un giudizio sferzantemente negativo, burocrazia, diventa spesso un grave intralcio alla soluzione dei problemi. Ed il cittadino si trova a dover combattere contro i mulini a vento, raccogliendo frequentemente tempesta. Le cause? Almeno due. La prima, preoccupante per il pensiero libero e liberale. La  tendenza a sostituire il pensiero con la disciplina. Intendiamoci, la disciplina come elemento organizzativo è utile in un sistema complesso dove si devono integrare  funzioni e ruoli diversi. Al  punto che quando ciò avviene, il personale più inquadrato e qualificato non per niente viene definito col titolo di merito, di impiegato modello. O addirittura, metaforicamente parlando, di  buon soldato. Tutto bene, come parrebbe, allora? No. Perché  chi si comporta in questo modo, viene privato del pensiero creativo. Della possibilità di attivare un  modello elastico di comportamento che sappia  comprendere le diverse esigenze degli utenti e possa offrire quelle soluzioni, non sempre comprese nel modello rigido,  tipico di una disciplina organizzativa, quasi di stampo militare, che per necessità non può includere troppe variazioni, pena il crollo del  sistema stesso.  .Insomma quando il pensiero creativo  viene schiacciato dall’eccessiva disciplina, non sempre si possono superare debolezze e rigidità che invece può attuare chi ragiona con la propria testa, onde dare risposte alle singole richieste, con la  volontà di trovare una soluzione condivisa o anche ricorrendo  al semplice  buonsenso. E’ questo il modello dell’immobilismo burocratico  che caratterizza il funzionamento degli enti pubblici ed anche del settore privato, ma con una differenza  fondamentale. Che nel primo caso nulla succede, mentre nel secondo, vale a dire nelle grandi aziende, il  pericolo è legato alle condizioni oggettive della domanda e dell’offerta. Perché queste stesse aziende,  se troppo rigide nel loro immobilismo, possono fallire, non essere più competitive sul mercato,  col rischio o di  essere  assorbite da aziende più solide oppure di essere costrette dai creditori ad attuare un processo di riconversione. Se quanto detto è il primo pericolo, il secondo è ancora più grave: la proliferazione del personale. E’ questo un processo ormai acclarato  che sta diventando una vera gangrena per quanto riguarda le spese, inficiando la stessa efficienza di ogni organizzazione burocratica. La quale nel moltiplicarsi delle poltrone,  invece della presunta efficienza, trova la  soluzione, con  gioco di parole, nella dissoluzione del problema,  da suddividere in tanti scomparti dove si individuano  mille eccezioni, altrettante interpretazioni soggettive, ognuna con  la pretesa di potersi rivolgere ad un personale addetto,   destinato, causa il numero eccessivo, a complicare il problema invece di risolverlo.  Il risultato? L a perdita della visione unitaria della procedura, con conseguenti palleggiamenti delle responsabilità, e con  la comparsa delle eccezioni,  dei dissidi, dei contenziosi legali e dei  rinvii sine die. In una parola, il caos. E’ questo il pericolo che corre il politico, quando ama allargare   la schiera dei suoi collaboratori, stimolato dalla voglia  di arricchire il proprio potere con il ricorso a personale diversificato per preparazione e competenza. Un problema di potere questo che si intreccia con quello umano cui pochi sanno sottrarsi, da parte di chiunque ricopra una posizione di responsabilità, nella vanità di dimostrare di avere sotto di sé un numero di collaboratori che sembra adeguato al proprio ruolo. Uno staff insomma di sottoposti, non si sa fino a che punto preparati, ma comunque fedeli da cui ricavare il doppio piacere del potere e della sua capacità di esercitarlo.  Quante persone hai sotto di te? E’ la domanda che il politico di turno ama sentirsi dire per soddisfare il proprio orgoglio. La vanità (del potere) giustifica allora il numero.  E poiché le competenze possono dilatarsi all’ infinito, anche i collaboratori devono seguire la stessa logica perversa. Manager, professionisti, tecnici, impiegati, uscieri, addetti stampa, comunicatori, consulenti, uomini o donne tuttofare, contribuiscono a creare la grande macchina burocratica dislocata in un palazzo dove gli spazi non sono mai sufficienti. Un dedalo di stanze e di poltrone in cui non si ritrova il povero cittadino, ma in cui si perde anche la voglia di fare da parte dello stesso personale, perché nel numero dilatato, la voglia di emergere o quella nascondersi sono inversamente proporzionali. Ma a tutto carico del non emergere.   Ecco allora subentrare spesso la frustrazione che si esprime attraverso l’arroganza  del burocrate, reso intoccabile, incontrollabile e inamovibile . Il clima generale diventa allora questo : se non ci sono io,  ci sarà  un altro disposto ad ascoltare e a dare risposta al rompiscatole di turno.  Ho parlato di immobilismo e di proliferazione di personale, ma c’è un terzo pericolo. La stessa macchina che una volta ben oliata diventa autonoma alla stregua di quanto accadeva nel film cult :  Odissea nello spazio dove lo stesso manufatto non riconosce il ruolo guida del suo ideatore. Acquisire degli anticorpi contro ogni controllo diventa una possibile soluzione per la burocrazia fuori controllo, così come ribellarsi a chi ha progettata, protetta e poi ben nutrita sia a livello stipendiale che di promozioni. L’Hybris, vale a dire la protervia  di diventare un potere nel potere, senza dover rispondere di se stessa,  crea allora quell’evento definito da Del Noce, l’eterogenesi dei fini. Infatti gli  elettori periodicamente possono cambiare la poltrona del responsabile,( il sindaco) ma non le tante poltrone  della macchina burocratica su cui stazionano appesantiti e salsicciosi glutei abituati all’immobilismo. Ecco  allora in sintesi i consigli, non richiesti, da dare  al nuovo sindaco. Che sappia amministrare con fermezza pur sapendo  a quale difficoltà  andrà incontro, preferendo usare il guanto di velluto, ma all’occorrenza tirando fuori gli artigli. Non solo  nei confronti dei nemici( politicamente parlando)  esterni, ma paradossalmente contro i più pericolosi ,nemici   dislocati al suo interno,  qualora avesse l’ardire di ridimensionare l’intera organizzazione burocratica, e sveltirla in fatto di numeri ,di competenze e di privilegi. E si ricordi di non  dimenticare quell’esercizio quotidiano della ragione costituito dalla misura ( est modus in rebus) e dal buon senso.  Null’altro da aggiungere, per ora. Auguri             

Consigli (non richiesti) al nuovo sindaco

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