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Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Contro la legge

Prendetela come volete, scandalizzatevi pure, ma il titolo è quello che è. Va solo completato. Dunque, devo solo aggiungere, almeno due condizioni per andare contro la legge. La prima, quando la legge è sbagliata. La seconda, quando la legge si allarga, si allunga, si stira, si amplifica al punto che questa si sente in diritto e in dovere di decidere su ogni cosa che riguarda la vita di ogni singolo individuo. Mi spiego. Se la legge è sbagliata nel senso che va contro la dignità della persona e la morale, non vi sono dubbi. E’ questo il caso dei soldati tedeschi durante l’ultimo conflitto, che per eseguire gli ordini ricevuti uccidevano chiunque, donne e bambini compresi. Di questa condizione, già condannata dalla storia, non è il caso di soffermarcisi sopra. L’altra invece, un po’ perché riguarda noi tutti e un po’ perché è ormai accettata nel nostro modo di vivere, sembra invece meritevole di un chiarimento, come da titolo. Guardiamoci attorno e osserviamo la realtà. La vita di ognuno è sottoposta al setaccio di una legge creata ad hoc. Ormai è abitudine consolidata che ogni più piccolo dubbio, ogni minima contrarietà, ogni fraintendimento debba essere spiegato, ricorrendo alla legge. E poiché le situazioni della vita di ognuno di noi, offrono occasioni pressoché infinite di distinguo e di variabilità, ecco la necessità di trovare sempre nuove leggi in cui inserire ogni più piccola variante. Meglio ancora, urge reperire sempre nuovi cavilli giuridici cui ricorrere, per stabilire ragioni e torti. Anche quando le ragioni sembrano avere qualche torto ed i torti a loro volta qualche ragione. La soluzione allora è quella di Inventare leggi a getto continuo, di cui poi ne diventiamo succubi. Le ragioni non valgono per se stesse, in base a valutazioni condivisibili, ma solo per le presunte ragioni della legge. E poiché, come sappiamo, ogni legge deve essere interpretata, le questioni si allungano all’infinito in quanto tali interpretazioni entrano nel vissuto individuale, non divisibile con altri. Dunque al posto del discernimento che in realtà significa coscienza, la quale a sua volta può essere chiamata, semplice buon senso , abbiamo preferito affidare la soluzione di quello che ci capita nella vita, alle regole della legge E qui bisogna fare un altro distinguo. Regole certe e ferree su questioni importanti che coinvolgono i grandi temi morali, potrebbero anche andare bene, ma l’argomento di cui tratto, non riguarda eventi che cambiano la vita. Ma spesso solo questioni marginali. Basta un televisore con l’audio troppo in alto o la pipì del cane fatta fuori dagli spazi, che subito scatta la denuncia di chi si sente defraudato da un suo diritto. Diritti e doveri, dunque. Ma come individuarli quando le presunte colpe riguardano questioni trascurabili? Quando trattasi solamente di un diverso stile di vita che uno ha, di proprie abitudini particolari che vanno contro il numericamente corretto, ma non per questo debbano essere necessariamente di offesa a qualcuno. Oppure, per scomodare una questione più impegnativa, quando trattasi di una differente concezione filosofia della vita, che induce a comportamenti non sempre riconducibili a situazioni standard. Insomma, in mancanza di un minimo di tollerante buon senso, sembra che ci comportiamo tutti, come fossimo l’un contro l’altro armati e in questa condizione, diventa indispensabile ricorrere alla regola. Al punto che se ancora questa non esiste, occorre inventarla. Sembra strano ma la regola, una volta trovata é anche comoda. Scavalca l’impegno personale che presuppone il discernimento, onde cercare di capire la concreta situazione dell’altro. Non ci obbliga ad assumere un atteggiamento relazionale con la consueta perdita di tempo. Non ci spinge infine ad affrontare un dialogo con l’altro per capire le reciproche ragioni alle quali si preferisce la decisione del distinguo categorico di legge. O di qui o di là. O con me o senza di me diventa il risultato, del codice della regola che non ammette eccezioni. E che stabilisce come tutti i comportamenti fra le persone, possono essere sanzionati e sottoposti a decisioni giuridiche. Nessuno è perfetto, tanto meno santo. Dicevamo prima che ogni persona vanta sue situazioni particolari con l’aggravante che ognuna di queste può cambiare nel corso della vita. Ebbene con l’attuale nostra mentalità di dover stabilire per legge ragioni e torti, ci si infila in un ginepraio di regole che non potranno mai essere tante quante le diverse situazioni personali di ognuno. Cosicché assistiamo all’inflazione delle regole. Ecco allora perché la nostra società attuale è dominata dalle norme di legge che dovrebbero in teoria dare risposte certe ai diversi comportamenti, ancorché innocui e spesso nemmeno lesivi dei diritti degli altri. Intesi questi diritti, come politicamente, religiosamente, socialmente e burocraticamente corretti. E metteteci pure, in questa definizione, tutti gli avverbi che vi vengono in mente. Questo è l’ambiente in cui viviamo dove la coscienza, che prima ho chiamato discernimento, è stata relegata in un cantuccio per persone semplici e per giunta immersa nell’oscurità dell’esistere da parte dei madia. Ben diversa dalle luci della ribalta del nostro vivere moderno, dove spesso per comodità di non decidere, ci si affida alla regola. E dove affidare a questa le questioni di vita e di morte. E’ il caso di Charlie Gard il bambino che deve morire perché così hanno dichiarato i giudici con una motivazione che sa di pelosa giustificazione dai risvolti di finta morale. Perché morire, secondo loro, si traduce in un bene per il bambino che così non dovrà soffrire ulteriormente. Ma a questo punto viene spontaneo chiederci dove è la ragione? Dalla parte del bambino di cui non si conosce ancora il pensiero, ma che dimostra un attaccamento alla vita col reagire alla sua condizione disperata? Oppure dei genitori che vogliono far vivere il loro figlio, in attesa che sopravvenga qualche nuova cura ( nella società delle regole non è contemplato e neppure lecito parlare di miracolo)? Infine della legge che sotto forma di giustizia entra nel mistero della vita e della morte per decidere come superare questo esile ed indefinito confine? Abbiamo parlato di leggi, di interpretazione delle regole e di certe valutazioni che ci lasciano sgomenti. Due casi, fra gli ultimi. Il primo che riguarda Bruno Contrada servitore dello Stato, considerato dapprima uno dei più brillanti poliziotti negli anni 80 e 90 e poi precipitato nel baratro delle accuse di essere colluso con la mafia. Il suo è stato un inferno. Condannato a dieci anni di carcere, distrutto nel fisico e nel morale, oggi lo si dichiara innocente. Il secondo caso è invece quello dell’infermiera, subito definita Killer dai media. Trattasi di Daniela Poggiali di Lugo di Romagna. Accusata di aver ucciso una paziente con un’iniezione di potassio, condannata inizialmente all’ergastolo con sentenza del 2014, oggi è dichiarata innocente. Non entro nel merito delle sentenze. Dico solo che interpretazioni diverse ci possono anche stare. Ma una domanda è lecita: dove ci conduce una società legata alle infinite interpretazioni di altrettante infinite regole? Ecco perché ho intitolato l’articolo contro la legge. Il troppo quando è troppo stroppia. Preferisco l’errore della coscienza a quello della legge, finché la legge non dimostrerà di essere rispettosa della coscienza. Che in sostanza, vuol dire libertà per l’individuo di agire secondo una morale che deve condurre al massimo bene comune. E solo quando questo si inceppa a quel punto intervenga pure la legge. Rispettare il sabato secondo la morale cristiana, può far bene ai tanti farisei che conosciamo, ma non significa raggiungere il bene assoluto. Al massimo limitare l’eccesso di male. In questo caso, pur sapendo che nessuna regola otterrà mai il massimo bene possibile, venga pure la legge. E a quel punto è perfino auspicabile che sia giustamente dura, se bisogna lottare contro il male, senza obbligatoriamente ricorrere a speciose interpretazioni. Il contra legem che si trasforma in pro legem, può diventare allora il punto massimo di una contraddizione apparente che in realtà contraddizione non è.

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