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Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Il dialetto muore perché muore la poesia

Una volta tanto esco dai miei soliti argomenti per parlare del nostro dialetto. Anzi dei dialetti. Esistono tuttora, ma qual è il loro destino? A me sembra, tranne alcuni dialetti che sono diventati modo di comunicazione abituale e come tali riconosciuti a livello nazionale, tipo il romanesco, il fiorentino ed il napoletano, a me sembra, dicevo, che tutti gli altri siano in agonia. Eppure la domanda su cosa sia la lingua sia quella italiofona che quella popolare e quindi dialettale è sempre stata fonte di polemiche e di giudizi diversi. Tanto che l’Italia è la nazione che in base alla sua superficie vanta più dialetti, rispetto a tutte le altre. Infatti soltanto nella nostra città, basta uscire dalla zona del centro per addentrarci in periferia o meglio ancora in provincia, che il dialetto cambia. Cosa significa questo? Che il dialetto che pure è una lingua, segue le stesse evoluzioni del costume e delle usanze locali al pari della lingua italiana. Ogni linguaggio allora è difficile da definire. Ci hanno provato in molti e per limitarci ai tempi più recenti, per citarne solo alcuni, si ricordano a proposito della lingua da adottare, scrittori come D’ Annunzio, Croce, Gramsci e lo stesso Gentile. Il quale nella sua Riforma scolastica, ha ridimensionato la funzione della grammatica nei programmi di studio, per sostenere il ruolo positivo dei dialetti. Tuttavia questa riforma a proposito dei dialetti, fu subito ostacolata dal regime fascista, che adducendo la motivazione di una scarsa italianizzazione del paese, ne vietò l’uso per legge. Dunque allora che differenza esiste fra italiofonia e dialetti se entrambi sono lingua? Si potrebbe dire in modo molto schematico che la prima è la parola della penna, mentre la seconda la parola della bocca. Intendendo in questo modo una diversa espressione del linguaggio che accede nella prima alla forma letteraria e nella seconda invece al carattere esclusivamente popolare, perché in grado di esprimere un idioma esclusivamente semplice e naturale. Se la differenza fosse solo questa, commetteremmo l’errore che da sempre ha contraddistinto i sostenitori della Crusca, sempre impegnati a sostenere una lingua pura, al contrario dei suoi detrattori che ritengono non esistere una lingua perfetta ed immodificabile. Da questa polemica, si deduce che lo schematismo fra cruscanti ed anti cruscanti non si addice alla lingua. Per una semplice ragione, che questa cambia continuamente nel tempo e rappresenta l’evoluzione dei costumi di un popolo. In particolare possiamo definire la lingua la manifestazione comunicativa di una vita vissuta, che si rinnova continuamente ad di là dei formalismi anche nelle forme di carattere sintattico. Detto questo, mi rendo conto di suscitare la reazione di coloro che vagheggiano il rispetto assoluto delle regole per poi arrivare a concepire e produrre una lingua che si pone come espressione dell’anti parlato. Intendendo quest’ultimo come manifestazione di una anti scrittura e di una anti letteratura. Causa il tentativo sempre vagheggiato, di costruire una super lingua chiusa nelle sue regole culturali di carattere sintattico e grammaticale. Senza però rendersi conto che così facendo, si corre il rischio di farla diventare libresca e fatua, causa la mancanza di quel mordente espressivo in grado di cogliere la realtà che cambia e che drammaticamente si identifica col senso delle cose. In contrapposizione a questo modo di intendere la lingua, nasce allora il dialetto che entra nella storia dei popoli quasi abusivamente, perché usata contro quelle categorie sociali che vantando i propri privilegi culturali, manifestano irritazione contro questo linguaggio parlato. Privo, a loro dire, dell’eleganza della forma e del sostegno delle tradizioni culturali classiche. Ma poiché, come detto la società cambia di continuo, accade che con la fine del suo periodo rurale, anche il modo di comunicare si modifica ed il dialetto trasforma la sua condizione subalterna diventando cultura. La causa? La nascita, per ragioni storiche e conseguentemente di un impoverimento della lingua in fatto di scarsa propensione al moderno, di una necessaria contaminazione fra parlato e scritto che cambia i convincimenti iniziali. Per cui da parte degli stessi letterati subentra l’esigenza di vivificare una lingua, fino a quel momento fossilizzata in quanto troppo ancorata agli stilemi formativi, soprattutto di carattere grammaticale, tramite l’uso di vocaboli standardizzati, troppo preconfezionati e ripetitivi. Subentra allora la necessità della migrazione di vocaboli della e dalla strada. Si produce, quindi specie nel secolo scorso, un bilinguismo fra italofonia e dialettalità con la nascita di un nuovo linguaggio a coloritura dialettale che sembra adombrare non solo il campo letterario, ma addirittura quello poetico. Al punto che la forma dialettale, con una virata di 180 gradi rispetto al periodo iniziale, diventa il linguaggio della poesia. Per documentare questo nuovo indirizzo, basta citare scrittori come, Carlo Porta , Giuseppe Gioacchino Belli e poi Pier Paolo Pasolini che al di fuori di ogni pedagogia grammaticale, preferisce l’uso del linguaggio borgataro. Ed infine per citarne altri, si ricorda Tonino Guerra, Mario Grasso, Franco Loi, senza dimenticare Luigi Pirandello che non si sottrae all’uso di intrusioni dialettali. E da noi piacentini? Fra tutti, emerge fra i poeti, Valente Faustini in grado di cogliere tutte le sfumature della lingua popolare, elevandola a lingua poetica. Il dialetto diventa in lui l’occasione per creare quindi una dimensione atemporale, dove l’uno ed il tutto diventano una cosa sola, senza più i preconcetti di pretese mono linguistiche di natura pseudo culturale, ormai superate dalla potenza espressiva di una linguistica diventata arte. In grado di cogliere attraverso la forma dialettale, quindi di un linguaggio popolare, una epica fuori da ogni contesto temporale e da ogni riferimento pregresso. In questo modo la trasformazione del dialetto è compiuta. Ed il parlato si è trasformato in lingua scritta, acquistando carattere letterario ed insieme poetico. Così facendo si sviluppa sempre più, con intenti creativi, l’uso contaminato di nuovi vocaboli di provenienza dalle varie regioni d’Italia che rendono la lingua viva perché aderente al corso dei tempi. Tralasciando Faustini e per addentrarsi nella dimensione nazionale, constatiamo un nuovo fenomeno, recentemente avvenuto. Il dialetto e quindi il suo corredo poetico, sembra battere in ritirata, essendo subentrata l’esigenza di promuovere una maggior conoscenza dell’italiano, diciamo moderno, ma spurio. In quanto infiocchettato da anglicismi vari e da una gergalità a volte banale o addirittura volgare che trova il suo consumo nel conformismo di un linguaggio politicamente corretto, secondo gli schemi trasmessi dalla pubblicità o dall’esigenza di uniformare i comportamenti. In questo modo non solo il dialetto, sempre meno parlato dalle giovani generazioni muore, ma trascina con sé anche la lingua italiana, ormai in preda a sotto lingue diverse causa il multiculturalismo. Tutto questo suscita apprensione per il futuro causa la nuova mentalità che tende a raggiungere un livello di omologazione sia nei costumi che nel modo di comunicare. In tutto questo cataclisma è proprio il dialetto che dopo aver guadagnato una sua collocazione letteraria e poetica, ha subito l’affronto dei nuovi costumi che alla cultura preferiscono votarsi alle questioni economiche onde raggiungere l’auspicato benessere del corpo. Tralasciando quello dello spirito che trae forza e linfa anche dalla stessa poesia. Come già detto, la stessa cosa riguarda la lingua italiana, sempre più ridotta a reperto ed indagine da parte dei filologi. Che nostalgia viene da dire, rispetto a quel tempo dove un personaggio come Filippo Tommaso Marinetti con il suo Manifesto Futurista poteva permettersi di contestare la lingua italiana, sostenendo che doveva essere libera o meglio liberata da ogni regola sintattica e grammaticale, abolendo perfino gli aggettivi e la punteggiatura. Ma anche in questo modo la lingua pur attaccata in forma così violenta, rimaneva salda e viva. Magari imbruttita per accessi polemici, ma sempre vitale causa le sue capacità di reinventarsi continuamente, anche attraverso la denigrazione più accesa, il cui spirito, improntato alla più farneticante contestazione, mai giungeva a rinnegarla. Da quel tempo, siamo nel 1909, il modo di comunicare col linguaggio non ha mai subito traumi così gravi da dover ricorrere come oggi alla sala mortuaria. Ma poiché alle gravi malattie non sempre c’è rimedio, ad aggravarle va citata ora la libertà perduta che va di pari passo con la lingua. Perché, pur non ricordando chi l’ha scritta, ricordo questa frase: che un popolo diventa servo e povero se perde per suo volere la lingua o se la si lascia rubare. Detto questo, aggiungo una nota personale che magari interesserà ben pochi lettori, ma la dico ugualmente. Ebbene, io per quanto piacentino non ho mai parlato il dialetto. Che dire? Non mi piace il nostro dialetto per esser troppo crudo e francofono? Non lo nego. Preferisco il milanese, più allineato alla comprensione immediata? Pure possibile. Oppure che sia la mia una forma di sciccheria? Potrebbe anche darsi. Ma se questa esiste, ne cito anche una seconda. Quella delle persone che se la tirano con la cultura e che di tanto in tanto aggiungono alle loro dotte argomentazioni, qualche locuzione piacentina. E qui non mi riferisco a qualche semplice intercalare che viene spontaneo pronunciare per chi è nato all’ombra dei tanti campanili che esistono in città, ma come detto, ad intere parti del discorso. Allora quale la ragione? Forse per rendersi piacevolmente accettate dalle persone semplici e così dimostrare di essere simpatiche ed anche, tanto per usare una parola inflazionata come la democrazia, per dimostrare di essere dei fedeli seguaci di questa forma politica? Oppure per una ragione uguale e contraria. Far vedere e far notare che oltre alla cultura e alla padronanza di diverse lingue, sanno anche parlare il piacentino, ma a ben vedere, solo nelle circostanze concesse dal protocollo del cosiddetto bon ton? Così facendo incrementano la loro visibilità che è spesso fonte di consenso e se non è sciccheria questa, come la volete chiamare? Polemica a parte, ritorno al mio titolo, e non rinuncio a manifestare soddisfazione, anche se sono ormai in via di estinzione, riguardo alla persistenza dei dialetti, che, come il nostro, tutt’ora resistono alla moda del tempo. E con i quali si rappresentano attraverso varie compagnie teatrali, le grandi commedie dei nostri migliori poeti, mentre continuano a restare saldi in resta, i nuovi seguaci del vernacolo poetico. Persone educate e riservate queste, che non se la tirano e che per questo stimo ed ammiro. Uno di questi è anche un amico, le cui poesie leggo una prima volta e poi passo ad una seconda lettura per la mia non completa capacità di comprendere nell’immediatezza il piacentino scritto. Così in questo modo trovo il piacere, di immedesimarmi nel mio passato, respirare l’aria di casa e quindi realizzare quel pieno di emozioni che sinceramente ridestano in me una vocazione linguistica alla terra natia, per certi versi tradita. Basta, ché la clessidra ormai svuotata, mi impone l’ora di chiudere.   

Il dialetto muore perché muore la poesia

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