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Giovedì, 25 Aprile 2024
Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Il liberalismo alla prova elettorale: fra essere e non essere

A proposito del liberalismo esiste, ammettiamolo, una contraddizione in termini fra essere e non essere. Cosa voglio dire? Che a parole tutti o quasi si dichiarano liberali, ma in pratica il liberalismo come forza politica non esiste. O quasi. Una ragione allora ci deve essere che da una parte attira e dall’altra respinge l’elettore medio. Una delle possibili risposte è che il liberalismo nella sua attualizzazione, suscita diffidenza fra chi è ormai entrato nella dimensione di vedersi tutelato dallo stato. Una condizione questa che oggi in piena crisi di una guerra a noi  vicina con gli inevitabili contraccolpi economici, genera perplessità nei confronti di un individualismo spinto. Carattere questo con cui è stato da sempre frainteso il liberalismo. Ma è veramente così? Sì e no la risposta. No, dal punto di vista concettuale. Il liberalismo infatti rappresenta una serie di valori che fa derivare ogni sua altra declinazione, dalla parola libertà. Passando dal libertarismo che si identifica con la libertà assoluta di agire, al liberismo con riferimento all’economia e alla libertà di mercato. Entrambi uniti da quel valore assoluto costituito dalla libertà. Dunque chi è libero, non solo non è un servo, ma neppure  è un individuo isolato, chiuso nel proprio egoismo,  come una certa cultura di sinistra lo vorrebbe rappresentare. Ma soprattutto ha voluto far credere. Nulla di tutto questo. Infatti la vera libertà presuppone il suo carattere di universalità, tale da  non essere legata ad un solo individuo o ad una ristretta cerchia di persone, ma come patrimonio di tutti. Infatti, solo in questo contesto, chi è libero vive la propria libertà come rispetto della libertà degli altri e da questo se ne deduce che la libertà diventa fatto sociale. Solo così si realizza la  costruzione di una società libera perché formata da un insieme di uomini liberi. Potremo, a questo punto, definire  il liberalismo anche socialismo, se questo, come forza politica, non si fosse appropriato del significato originario di libertà, coniugandolo però in una visione collettivistica. Quindi contro la persona singola, a sua volta interpretata come espressione di un valore negativo, quale l’egoismo fine a se stesso. Invece, liberalisticamente parlando, tutto questo non è e mai dovrebbe essere. Ce lo aveva già dimostrato ampiamente la Rivoluzione francese, con il suo triplice inno ai diritti dell’uomo, dove sia la egalitè che la fraternitè, riconoscevano la loro matrice nella libertè. Dunque se qualcosa è andato storto  nella percezione della libertà, intesa come forza politica, cui ascrivere il liberalismo, val la pena allora  esaminare le cause. E con queste  rispondiamo, sì, alla iniziale domanda che ci siamo posti. La responsabilità va trovata non all’esterno, ma all’interno dello stesso liberalismo, almeno come è stato concepito ed applicato nel nostro paese a differenza di quanto è invece successo nei paesi anglosassoni. In particolare negli Stati Uniti, dove il cosiddetto spirito liberal, per quanto ibridato da una patina di socialismo di stampo europeo, ha mantenuto fede al suo vero significato di libertà della persona. Da noi invece il liberalismo al posto di realizzare la società libera, ha preferito rintanarsi in un isolamento sospetto, inteso come tutela di classe (ecco un altro punto di collegamento con l’altra e più famosa classe del socialismo reale), in sostanza rappresentata da individui beneficiati dalla sorte. Una tutela insomma di interessi più privati che pubblici, abbandonando la sua ragione di fondo. La sua vera matrice liberale di cosa privata e pubblica nello stesso tempo. Persiste infatti ancora fra i liberali una certa nostalgia “ de la boue” di stampo ottocentesco che vuol dire in pratica, rimpianto verso il fango delle classi deboli e poco emancipate. La quale nostalgia, invece di stimolare uno spirito di riscatto sulla base del valore unico ed irripetibile della libertà, valore indispensabile per affrancare chiunque dal bisogno economico, si trincerava invece nella tranquilla salvaguardia di un intellettualismo elitario. Il quale dall’alto di una cultura beneficiata da una certa tranquillità economica, di fatto produceva divisioni sociali e movimenti politici di contrapposizione. Autorizzati ad anteporre all’individuo lo  stato, utilizzando con doppiezza, l’arte di sottrarre al liberalismo la sua bandiera di libertà per consegnarla alla cosa pubblica, sovvertendo lo stesso concetto di liberalismo originario. Continuando con la nostalgia del fango, questa contraddizione la possiamo vedere bene nella Milano del secondo ottocento. Dove da una parte stavano le categorie dei piccoli, medi ed alti borghesi, tutti convinti della loro superiorità  intellettuale ed economica che garantiva loro poteri e diritti civili, come ad es. quello del voto, dall’altro il popolo povero, affamato ed umiliato da cui poi nacque una nuova cultura. Quella dei cosiddetti perduti  e che ho cercato di descrivere nel mio libro: La Scapigliatura. Giovani intellettuali,, votati chi all’arte figurativa, chi al giornalismo, chi alla poesia, squattrinati, mossi da una fede nel realismo degli umili, importato dalla Francia, tramite una nuova filosofia di vita chiamata Boheme. Giovani, mi ripeto, che si autodefinirono scapigliati, dimostrando a cominciare dal nome il loro credo nel voler andare controcorrente, nel contestare privilegi e falsità. Trattasi di socialismo  o liberalismo anarcoide? Basti leggere infatti il libro: Milano sconosciuta di P. Valera  per capire il senso di questi scapigliati, diventati i perduti dalla classe al potere. Dove ai palazzi nobiliari o della borghesia intellettuale liberale, si contrapponevano i tuguri maleodoranti della povera gente, falcidiata dalla tisi, sempre alla ricerca di una carità che non arrivava. Una umanità quindi degradata perfino nei costumi non per vizio, ma per l’esigenza del sopravvivere. Ed anche per questo bistrattata e  punita dalla legge che doveva tutelare privilegi ed immobilismo sociale. Se questo è il passato, anche quello più recente, sembra confermare , pur in toni meno drammatici, quelle responsabilità cui prima accennavo. Diventato minoritario , il movimento liberale, ha continuato la politica della sua superiorità intellettuale, rendendo in tal modo ancora più evidente la contrapposizione nei confronti dei partiti popolari, che nel frattempo avevano convertito le masse. E parlo del partito comunista e della democrazia cristiana. L’isolamento e la condizione minoritaria in politica, con l’aggravante di una certa presupponenza verso questi partiti di massa, aveva dato i suoi effetti.  Quali, essere emarginati per incapacità di aggiornare e modificare la propria natura di compiaciuto isolamento. Il che avrebbe dovuto spingere ad iniziare una nuova politica. Quella di abbandonare i palazzi e scendere nelle piazze per denunciare  gli errori del processo di statalizzazione, ormai talmente saldo da trasferirsi dalle coscienze individuali a quelle collettive. Lo stato completamente occupato dalla cultura socialista, era diventato ormai immemore della sua primogenitura che  era appunto quella liberale. La burocrazia elefantiaca diventava il suo braccio operativo e la legge quello armato, inteso nel senso applicativo quasi sempre a favore del collettivo e ai danni del singolo. Ma come capita spesso, le cose cambiano. Anche i più grandi imperi deperiscono e periscono causa la loro stessa tracotanza, quando troppe pretese e diritti diventano usurpazioni. Lo spirito del tempo chiamato per i dotti, zeitgeist, si prende le sue rivincite. In questo modo almeno a livello di idea che sarebbe meglio definire ideale, lo spirito di un nuovo liberalismo sembra rinascere nei confronti di uno stato padrone che nonostante tassazioni vertiginose e vessazioni di ogni genere, non essendo più in grado di controllare entrate e spese,  si avvia verso un futuro alquanto incerto. Di fronte al possibile tracollo, riprendono fiato le antiche e silenti trombe del liberalismo, nel tentativo di correggere il suo passato e coniugare l’interesse individuale con quello collettivo. Come al solito i primi squilli vengono dagli Stati Uniti, mentre l’Europa in costante crisi di identità ed economica, anche grazie alla recente guerra in Ucraina, stenta a muoversi, in preda alla sue abituali contraddizioni. Rinasce dalle sue ceneri, la nuova terapia di rianimazione del liberalismo,  attraverso la costituzione di comitati volontari a più livelli. A cominciare dal quartiere, per poi diffondersi alle città, alle regioni ed infine ad interi paesi, onde gestire autonomamente la cosa pubblica attraverso il libero concorso dei cittadini. Riuniti in assemblee periodiche dove i conti da una parte ed efficienza dall’altra, si decidono le opere che servono. Case, quartieri, strade e piazze. Per passare poi all’ordine pubblico attraverso la costituzione di una polizia privata. Quindi affrontare il tema della scuola, con forti iniezioni di liberalismo, come già sosteneva L. Einaudi che a dimostrazione di una preveggenza illuminata, auspicava l’abolizione legale dei titoli di studio. E poi ancora la riforma del diritto e delle leggi da concepire al servizio delle libere comunità. Insomma ed in sintesi , concepire il bene pubblico finanziato volontariamente senza ricorrere a metodi coercitivi. Detto in questi termini,  che negli Usa coinvolgono quasi 60 milioni di cittadini, questo programma a noi italiani sembra qualcosa di lunare,  se non ce lo ricordasse Silvio Boccalatte con il suo testo: Città che vivono senza stato. In cui vengono descritte due esempi di città volontarie anche nel nostro paese, in particolare nei comuni di San Felice a Milano ed a Partigliano  in quel di Lucca. Ma chi ancora meglio ce lo insegna è l’economista David Friedman, il quale dopo aver conseguito due lauree scientifiche in chimica e fisica, si è dedicato col suo libro: L’ingranaggio della libertà, al tentativo di risollevare  la situazione mondiale, dalla caduta  in cui è precipitata. Per la verità, egli è un liberale atipico, anzi agorico, come lui stesso si definisce. Queste le sue idee. Da una parte il socialismo liberale o libertario che si realizza quando si socializzano le libertà dei comportamenti che nelle istituzioni devono trovare il terreno ideale per poter esprimere ogni diversità. Dall’altra la condizione quasi opposta, l’anarchia, in cui la libertà da un patto sociale liberamente costituito, trova la sua estrema applicazione nella condivisione del niente soggettivo, causa la sua natura rispettosa  di infiniti ed individuali desideri e modi di pensare. Come sempre gli americani  forse esagerano. La soluzione allora possibile per noi italiani, per vincere le nostre paure, potrebbe essere individuata (bisogna accontentarsi) nel tentativo di far dimagrire lo stato al posto di eliminarlo. Cominciando ad abolire ogni forma coercitiva nei confronti del popolo suddito, trasformato in massa omogenea da spremere con le tasse, con il risultato paradossale di ottenere una condizione  opposta, quindi controproducente. Perchè convinciamocene, il bene pubblico è prima di tutto la salvaguardia della libertà. Il cui contrassegno in economia è quello di evitare gli sprechi che iniziano dal dirottare il lavoro produttivo verso usi passivi. Una vecchia e parassitaria abitudine questa, che serve solo a mantenere privilegi e vantaggi da parte di chi con gli aiuti di stato, si illude di sopravvivere, morendo.

Il liberalismo alla prova elettorale: fra essere e non essere

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