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A cura di Carlo Giarelli

Il liberalismo alla prova finale: essere o non essere

A parole tutti si dichiarano liberali, ma nella pratica il liberalismo come espressione politica non esiste. O quasi

A proposito di liberalismo esiste un punto interrogativo, una contraddizione in termini fra essere e non essere. Cosa voglio dire? Che a parole tutti si dichiarano liberali, ma nella pratica il liberalismo come espressione politica non esiste. O quasi. Una ragione allora ci deve essere che da una parte attira e dall’altra respinge l’elettore medio. Una delle probabili risposte è che il liberalismo nella sua possibile realizzazione pratica, fa paura a chi ormai è entrato nell’abitudine di vedersi tutelato dallo Stato. Una condizione questa  che specie oggi suscita, in situazione di crisi, molte perplessità, ma che comunque è sempre preferibile all’individualismo spinto. Carattere questo con cui è stato da sempre contrassegnato o frainteso, per non dire malinteso, il liberalismo. Ma è veramente così? Sì e no, la duplice risposta. No, dal punto di vista concettuale. Il liberalismo infatti rappresenta una serie di valori che dalla parola libertà, fa derivare ogni altra declinazione.

Passando dal libertarismo che riguarda il campo del comportamento di ogni individuo e che si identifica spesso con la libertà assoluta di agire, al liberismo in riferimento all’economia e alla libertà di mercato. Quello che comunque li unisce, è il concetto di libertà. Valore assoluto questo, cui dipendono tutti gli altri. Dunque chi è libero non solo non è servo, ma  nemmeno è  un individuo isolato, chiuso nel proprio egoismo come ad una prima superficiale impressione potrebbe apparire. E come la cultura di sinistra, in questo aiutata da un modo a mio avviso degenere di intendere il liberalismo, ha voluto far credere. Infatti la vera libertà presuppone che essa sia universale, che non sia legata ad un solo individuo o un ristretto cerchio di persone, ma sia un patrimonio di tutti.

Solo in questo contesto chi è libero vive la propria libertà come rispetto della libertà degli altri e quindi se ne deduce che la libertà diventa fatto sociale, inteso come costruzione di una società libera da intendersi come insieme di uomini liberi. Potremmo a questo punto definire il liberalismo anche socialismo se questo come forza politica non si fosse appropriato del significato originario di libertà, coniugandolo però in  una visione collettivistica, contro la persona, a sua volta identificata col valore negativo dell’egoismo fine a se stesso. Come invece, liberalisticamente parlando, non è o non dovrebbe mai  essere. Ce lo aveva già dimostrato ampiamente la Rivoluzione francese  con il suo triplice inno ai diritti dell’uomo, dove sia l’egalité che la fraternité, riconoscevano la loro matrice nella liberté. Dunque se allora qualcosa è andato storto nella percezione della libertà, intesa come forza politica il cui derivato è appunto il liberalismo, val la pena esaminare le cause. E con queste rispondiamo, sì, alla iniziale domanda che ci siamo posti.

La responsabilità va allora trovata non all’esterno, ma all’interno dello stesso liberalismo, almeno come è stato concepito e applicato nel nostro paese, a differenza invece di quanto è successo nei paesi anglosassoni. In particolare negli Stati Uniti dove il cosiddetto spirito liberal, anche se in parte ibridato da  una patina di socialismo di stampo europeo, ha mantenuto fede al suo vero significato di libertà della persona. Da noi invece il liberalismo ha tradito la sua vocazione popolare, al fine di realizzare, come  avrebbe dovuto, la società libera. Ha preferito rintanarsi in un isolamento sospetto, inteso come tutela di classe (ecco un altro punto di collegamento con l’altra e ben più famosa classe e la sua lotta rappresentata dal  socialismo reale)  o di individui beneficiati dalla sorte. Una tutela insomma di interessi più privati che pubblici, abbandonando la sua ragione di fondo. La sua vera matrice liberale di cosa privata e pubblica nello stesso tempo.  E questo fin dalla sua origine di movimento politico. Ha quindi ragione Nicola Porro quando sostiene in un suo recente articolo, che persiste fra i liberali una certa nostalgia ”de la boue” di stampo ottocentesco, che in pratica vuol dire rimpianto verso il fango delle classi deboli e poco emancipate. La quale nostalgia, invece di suscitare attenzione  a  stimolare uno spirito di riscatto  sulla base del valore unico, irripetibile e ineguagliabile della libertà come  prima e indispensabile conquista per affrancare chiunque dal bisogno economico, si trincerava invece  nella tranquilla salvaguardia di un intellettualismo elitario.

Che dall’alto di una cultura beneficata da una certa tranquillità economica, di fatto produceva divisioni sociali e movimenti politici di contrapposizione. Autorizzati ad anteporre all’individuo lo Stato, utilizzando con doppiezza, l’arte di sottrarre al liberalismo la sua  bandiera di libertà sociale per consegnarla alla cosa pubblica. In tal modo si è generato  un sovvertimento completo del primitivo concetto di liberalismo. Contraddizione questa che possiamo vedere bene, per continuare con la nostalgia del fango, nella Milano del secondo ottocento.  

Da una parte la categoria dei piccoli, medi o alti borghesi tutti convinti della loro superiorità intellettuale ed  economica che garantiva loro poteri e  diritti civili, come ad es. quello del voto, dall’altro il popolo povero, affamato, umiliato, visto con gli stessi occhi, che probabilmente avrà provato  Colombo nei confronti della primitiva popolazione locale, una volta sbarcato in America. Inaugurando così il mito del buon (o cattivo) selvaggio. Ma la cultura liberale arroccata a sua esclusiva difesa, produsse un’altra e nuova cultura. Quella dei cosiddetti perduti, giovani intelligenti votati chi all’arte figurativa, chi al giornalismo, chi alla poesia, squattrinati, mossi da una fede verso il realismo degli umili, importato dalla Francia, tramite una nuova  filosofia di vita, la cosiddetta bohéme. Giovani questi che si autodefinirono scapigliati dimostrando a cominciare dal  nome, il loro credo nel voler andare controcorrente, nel contestare privilegi e falsità (socialismo questo o liberalismo  anarcoide?).

Tre infatti i loro credi. Il primo: razionalismo, da impiegarsi nella denuncia delle ipocrisie, contro il sentimentalismo spesso peloso. Il secondo: realismo nello smascherare le brutture annidate nei bassifondi della società, che la cultura ben pensante tendeva a nascondere. Infine il terzo: aspirazione  repubblicana  contro monarchia e il suo soccorso oligarchico. Basta leggere infatti, il libro: Milano sconosciuta, di  P. Valera per scendere, come si suole dire, dalle stelle alle stalle. Dai palazzi nobiliari o della borghesia intellettuale di stampo liberale, ai tuguri maleodoranti della povera gente, falcidiata dalla tisi, sempre alla ricerca di una carità che non arrivava, degradata nei costumi non per vizio, ma per  esigenza di sopravvivere. E ciononostante bistrattata e punita dalle leggi che dovevano tutelare  privilegi e  immobilismo sociale . Se questo è il passato remoto, anche quello più recente sembra confermare , pur in toni e modi diversi dunque meno drammatici, quelle responsabilità cui prima accennavo. Diventato minoritario, il movimento liberale ha continuato la politica della sua superiorità intellettuale. Rendendo in tal modo ancora più evidente la contrapposizione nei confronti dei partiti di massa, che nel frattempo avevano convertito le masse: Il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. L’isolamento e la condizione minoritaria in politica con l’aggravante di una certa presupponenza  verso questi partiti di massa, aveva dato i suoi effetti.

Essere emarginati per incapacità di aggiornare e modificare la propria natura di compiaciuto isolamento. Il ché avrebbe voluto significare,  abbandonare i palazzi e scendere nelle piazze a denunciare gli errori del processo di statalizzazione, ormai talmente saldo da trasferirsi dalle coscienze individuali a quelle collettive. Lo Stato  completamente occupato   dalla cultura socialista, era diventato ormai immemore della sua primogenitura che era appunto quella liberale. La burocrazia elefantiaca diventava il suo braccio operativo e le leggi quello armato, inteso nel senso applicativo quasi sempre a favore del collettivo e ai danni  del singolo. Ma come sempre le cose cambiano. Anche i più grandi imperi deperiscono e poi periscono causa la loro stessa tracotanza, quando dilatano troppo  pretese e diritti che diventano usurpazioni. Lo spirito del tempo, per i dotti chiamato, zeitgeist, si prende le sue rivincite in tutti i campi , includendo anche quello culturale. Assistiamo infatti ad un rifiorire dello spirito liberale. Almeno a livello di idea o meglio ancora di ideale, anche se, come detto, siamo ancora lontani dalla sua realizzazione, causa la paura che  questo nuovo risorgente liberalismo possa  modificare le attuali abitudini, quelle di essere sudditi che ricevono l’offa da parte  di uno Stato padrone. Uno Stato quindi, non più in grado di controllare entrate e spese, ormai  avviate verso un futuro senza ritorno, nonostante tassazioni vertiginose e vessazioni di ogni genere. Di fronte al tracollo, riprendono fiato le antiche e silenti trombe del liberalismo, in chiave aggiornata, nel tentativo di correggere il suo passato e coniugare l’interesse individuale con quello collettivo. Valori questi non in contrapposizione, ma in un rapporto di interdipendenza. Come al solito i primi squilli vengono dagli Stati Uniti, messi di fronte ad una crisi storica che per ora li riguarda solo di striscio, investendo invece l’Europa, in grave crisi  economica e di identità dove ogni Stato cerca di salvare se stesso, subendo però la pressione  del paese egemone, la Germania, con la politica  del rigore( di Stato). Col risultato di  un lento, ma inesorabile declino che investirà prima i paesi poveri e poi tutti gli altri.

La soluzione allora, l’unica a mio avviso possibile, quella di ricorrere ad una terapia di rianimazione da parte del liberalismo moderno. Attraverso la  costituzione di  comitati volontari a più livelli, a cominciare dal quartiere, per poi diffondersi alle città, alle regioni, ed infine ad interi paesi, onde gestire autonomamente la cosa pubblica, attraverso il libero concorso  dei cittadini.  Riuniti in assemblee periodiche dove conti alla mano e efficienza dall’altra, si devono decidere  le opere che servono. Case, quartieri, strade, piazze. Per passare poi all’ordine pubblico attraverso la costituzione di una polizia privata. Quindi affrontar il tema della scuola, con forti iniezioni di liberalismo, come già sosteneva L. Einaudi che a dimostrazione di una preveggenza illuminata, auspicava l’abolizione legale dei titoli di studio. E poi ancora  la riforma del diritto e delle leggi che devono essere  concepite  al servizio delle libere comunità. E si potrebbe continuare. Insomma in sintesi, concepire il bene pubblico finanziato volontariamente senza ricorrere a metodi coercitivi.

Detto così, questo programma a noi italiani, sembra qualcosa di lunare, se non ce lo ricordasse Sivio Boccalatte, nel suo scritto: Città che vivono senza Stato dove descrive l’esistenza di due agglomerati urbani, improntati al modello prima menzionato, già esistenti in Italia nei comuni di San Felice (MI) e Partigliano (LU). Due esempi di città volontaria che si presentano con le carte in regola, sia in fatto di efficienza raggiunta che  in riferimento ai risvolti economici conseguiti. Ma chi ancora meglio ce lo insegna è l’economista David Friedman, il quale dopo aver conseguito due lauree scientifiche in chimica e fisica, si è dedicato col suo libro: L’ingranaggio della libertà, al tentativo  di risollevare la situazione mondiale, dalla caduta in cui è precipitata. Per la verità egli  è un liberale atipico, anzi agorico come lui  stesso si definisce. A dimostrazione che nel concetto di liberalismo, ci stanno i due  estremi. Da una parte il socialismo liberale o libertario, che si realizza  quando si socializzano  le libertà dei comportamenti che   nelle istituzioni devono trovare il terreno ideale per potere esprimere ogni diversità.

Dall’altra la condizione quasi opposta, l’anarchia, in cui la libertà da un patto sociale liberamente costituito, trova la sua estrema applicazione nella condivisione del niente oggettivo, causa la sua natura  rispettosa di infiniti ed individuali desideri e modi di  pensare. Come sempre gli americani esagerano. La soluzione allora possibile per noi italiani, per vincere le nostre paure, è quella di far dimagrire lo Stato, non di eliminarlo. Modificando la situazione attuale, cominciando ad abolire ogni forma coercitiva nei confronti di un popolo suddito, trasformato in massa omogenea da spremere, con il paradosso fra l’altro di ottenere  risultati controproducenti. Perché convinciamocene, il bene pubblico è prima di tutto la salvaguardia della libertà. Il cui contrassegno in economia, è quello di evitare gli sprechi che iniziano dal  dirottare  il lavoro produttivo verso usi non produttivi. Una vecchia e parassitaria abitudine questa, che serve solo a mantenere privilegi e vantaggi da parte di chi con gli aiuti di Stato si illude di sopravvivere, morendo.   

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