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Venerdì, 19 Aprile 2024
Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Il primo giorno di scuola

Bene, comincio subito col dire che il primo giorno di scuola, sinceramenteio non me lo ricordo. Capisco a questo punto l’obiezione: perché allora parlare di ciò di cui non si ha memoria? Perché scrivere un articolo che a cominciare dal titolo vuole trattare un argomento che la mente ha ormai abbandonato?

Bene, comincio subito col dire che il primo giorno di scuola, sinceramente io non me lo ricordo. Capisco a questo punto l’obiezione: perché allora parlare di ciò di cui non si ha memoria? Perché scrivere un articolo che a cominciare dal  titolo vuole trattare un argomento che la mente ha ormai  abbandonato? Lasciandolo nel dimenticatoio delle innumerevoli cose che ci sono capitate e che ormai vivono ,se vivono, nel limbo di ciò che è stato e nello stesso tempo di ciò che non è ancora? Ebbene una ragione, sembrerà strano, ma  esiste. Infatti se io non ricordo il primo giorno di scuola, di giorni trascorsi sui banchi, nei primi anni di vita scolastica ne ricordo diversi. Anzi più precisamente mi vengono alla mente i luoghi, i primi compagni di banco e di aula, il primo maestro e poi tutto il corredo delle emozioni che riguardavano un altro mondo rispetto all’attuale. In fondo non dissimile da quello che il  De Amicis nel suo libro Cuore descriveva suscitando la lacrima facile della società borghese del tempo. Pronta a commuoversi senza però muoversi da quei modelli ereditati dallo Stato sabaudo, dove la stratificazione sociale, la netta separazione bene – male, non offrivano scampo ad altre interpretazioni. La società e conseguentemente la scuola ne rappresentavano l’esempio più calzante.

Poveri e ricchi separati dal censo e dall’appartenenza ad un diverso grado della scala sociale, potevano convivere alla luce dell’accettazione dei buoni sentimenti: di patria, di famiglia, di religione. Il mezzo o la possibile vie d’uscita, la lacrima facile del sentimentalismo che senza intaccare la sostanza  della stratificazione sociale, creava dei possibili varchi o vie di accesso in cui anche i poveri, se meritevoli, potevano trovare qualche opportunità per salire di grado nella scala dei valori sociali. Purché non deviassero dai canoni della tradizione borghese, chiusa agli estranei e aperta con fatica solo a quei pochi che attraverso sacrificio e studio dimostravano le giuste benemerenze per essere accettati.

Ecco allora che la scuola traduceva bene ai tempi del citato Cuore, questa situazione sociale e le cose si protrassero per diversi decenni, cosicché anche durante la mia infanzia, le cose non erano molto diverse dai tempo dei Franti o  dei Garrone. Per questa ragione scrivo. Dunque cominciamo dai banchi dove ancora la fòrmica (per limitarmi a questa innovazione)non era ancora arrivata. Il legno, in parte scheggiato e stinto rispetto al colore nero originario, intaccato dalle iniziali o a volte, per i più discoli (ma tutti lo siamo stati), inciso  per intero dal  proprio nome, rappresentava il luogo e la sede per tutta una schiera di scolari che negli anni pregressi non avevano resistito a lasciare memoria di se, onde dimostrare fin dall’infanzia il lato comune a tutti gli uomini dove  vanità e vacuità vanno spesso d’accordo. Inutile descriverlo, parlo del banco, nel dettaglio.

Ricordo  la sua mole imponente e la sua pesantezza, perché fatto di un legno spesso e robusto di abete causa le sue venature striate e oblunghe, che costituiva la sua solidissima struttura. Un banco quindi che  in tutti i sensidoveva dar prova non solo di  resistere al tempo, ma anche alle nostre attenzioni quando una aggressività  diventata abitudine, riemergeva  nascostamente con il concorso di qualsiasi oggetto appuntito ci capitasse fra le mani . Comunque il suo stile era improntato a seriosità e all’ assenza di ogni senso di frivolezza,visivamente in sintonia con la severità dell’impegno richiesto e all’autorevolezza di giudizi. Il sedile unico della stessa lunghezza del banco lasciava spazio per un compagno (quello appunto di banco) che diventerà il primo amico con cui confidare le impressioni, i timori, le ansie miste ai primi sotterfugi. 

Entrambi però separati da una linea immaginaria  costituita dai rispettivi calamai di vetro posizionati nella parte alta e piana del banco stesso, attraverso due aperture circolari in cui erano posizionati e trattenuti da un orlo di vetro grosso e robusto. Al loro interno inchiostro nero, in cui immergere il pennino (le biro verranno dopo) con l’avvertenza di raccogliere l’eccesso e lasciarlo scorrere sulla parete interna del calamaio, al fine di non riportare sul quaderno un tratto slargato perché troppo carico di colore, col rischio di  formare una macchia. Ecco la macchia di inchiostro sulla pagina bianca ha rappresentato ai miei tempi l’incubo, la paura e la vergogna di ogni scolaro. La macchia infatti assurgeva a simbolo di disordine e di incapacità a dover gestire l’eccesso. Il troppo che stroppia. Diventava quindi la prova provata di una negligenza che investiva oltre al piano scolastico, addirittura quello comportamentale, se non addirittura morale. Un errore interpretato e punito come un orrore, per giunta non emendabile per il suo ostinato persistere anche una volta asciugato l’inchiostro con la carta assorbente.

La macchia, perdeva allora il suo articolo determinativo di cosa singola per acquistare così una valenza generica di colpevole trascuratezza.  Diventando quindi in tutti i sensi un simbolo che ti accompagnava nel seguito delle pagine a segnare una caduta, una colpa, una vergogna. Una trasgressione involontaria e patita cui solo tante pagine immacolate e di bella grafia, potevano in parte attutire. Dalla macchia alla maestra o maestro, per queste stesse  ragioni, il passo è breve.  Nel mio caso trattavisi di un maestro in cui umanità e rigore si alternavano in parti uguali. La lavagna ne rappresentava la  dimostrazione più eloquente. Essere davanti o dietro ad essa,costituiva a livello simbolico, la via per dimostrare a se stessi e ai compagni, la colpa e la sua giusta punizione, da cui dipendeva più in generale il nostro futurodestino. Ora nell’affaccendarsi dei ricordi, mi accorgo  di non aver parlato della scuola come sede e dei miei compagni come vestito. Tutti rigorosamente  in grembiulino nero e con gala azzurra per differenziarsi dalle femmine che la gala l’avevano rosa. E se ancora mi sovviene qualche ricordo, trattavisi di un rosa pallido stinto quasi nel bianco e di una gala più sviluppata e appariscente rispetto a quella dei  coetanei maschi a dimostrazione che le femmine  fin dall’inizio dell’avventura della scuola e della vita, manifestano un desiderio di apparire che fa parte della loro natura. Ed eccoci allora alla scuola, la mia il Mazzini. Severa nell’architettura , quadrata e squadrata, dava l’impressione con la sua mole tardo ottocentesca di  costituire e custodire insieme, tutte quelle cose che ho tentato di descrivervi. E che non lasciano spazio ad una didattica che non parlasse anche attraverso la dimensione autorevole,di valori quali  impegno, obbligo ,severità. Come  contrariamente a quel che dice il proverbio, l’abito  a mio avviso fa l’uomo, anche l’istituto fa la scuola. E quanto più questa è imponente anche l’insegnamento traduce nei percorsi didattici analoghi percorsi di vita da percorrere per trovare la propria direzione e fra queste si comincia dalla propria aula, dal banco e dai relativi compagni. Due le scale di accesso, ampie e sufficientemente imponenti che traducevano bene le due nette divisioni, fra gli alunni ,a seconda della loro appartenenza di genere. Insomma i maschi da una parte le femmine dall’altra. Nessuna commistione, nessuna via di mezzo. O da una parte o dall’altra, non secondo i desideri o altre opportunità, ma  solo per fatti esclusivamente genetici  che non era lecito mettere in dubbio. Altra Italia quella, ma anche altro  modo di intendere il mondo. Dalla scalinate passiamo all’interno.

Corridoi ampi lunghi e larghi rappresentavano la prima accoglienza. Alla loro destra e sinistra si aprivano le porte per le aule. Tutte dello stessa metratura. Ampie e alte come era di moda a quei tempi e occupate da tre file di banchi con almeno una trentina di posti a sedere, separati  di alcuni metri dalla cattedra, unica e centrale destinata indifferentemente al signor maestro o alla signora maestra. Così ogni bambino doveva  chiamare il proprio insegnante, per dimostrare anche verbalmente rispetto e soggezione non solo per la figura , ma per il ruolo  che impersonava. Signor maestro o signora maestra che fosse, trattavisi di una figura allora quasi mitica. Si pendeva dalla sua autorità ed autorevolezza e come si temevano le sue punizioni (come ho detto andare dietro alla lavagna) nessuno metteva in dubbio la sua autorevolezza e il suo prestigio. Allorché il senso della didattica si mescolava spesso dietro il fare burbero ad una umanità vera, appassionata e comprensiva, non era raro cogliere nell’espressione apparentemente seriosa,  uno spirito di soddisfazione che traspariva quando dopo aver sgrossato incertezze e titubanze appariva sul suo volto, la  malcelata gratificazione di notare come i suoi insegnamenti colpivano quelle menti ancora acerbe. Ne risvegliavano desideri ed interessi mentre il primo ordito conoscitivo riattaccava nuovi fili di  comprensione che stimolata dalla curiosità approdava a più ampi  orizzonti.

Ora, poiché è giunto il tempo di chiudere, mi limito a questi vaghi ricordi  e se non ho potuto parlarvi del primo giorno di scuola, mi sono almeno lasciato guidare da altre emozioni che risalgono ai primi giorni di un’avventura umana che trova nella scuola il suo primo banco per cimentarsi. Altri tempi e mode quelle che vi ho descritto, ma ciò che rimane e rimarrà nel tempo è lo stesso desiderio di conoscere e di imparare. Elementi questi che la scuola fornisce, affinché ognuno possa trovare  la propria collocazione e dimensione nella vita. I cui  ingredienti fondamentali sono  studio e fatica.

Il primo giorno di scuola

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