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Giovedì, 25 Aprile 2024
Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

La democrazia malata ovvero l’incapacità diffusa

Non saprei valutare diversamente la nostra democrazia, se non mettendo questa pregiudiziale come sua condizione costitutiva, vale a dire l’incapacità. Ma ancora non è tutto. In quanto l’incapacità non riguarda solo il governo, ma tutta la nostra società. Guardiamoci attorno per capire. In tutti i campi o quasi, la professionalità e la preparazione sembrano una merce sempre più rara. La causa o meglio le cause sono tante. Prima di tutto la scuola, dove oggettivamente il sapere si è ridotto rispetto al passato, causa oltre che per i programmi ridotti, per una mentalità che in questo clima improntato ad evitare ogni discriminazione, tutto viene ridotto ad una naturale omologazione. Per essere più precisi, le differenze di profitto rischiano di essere considerate ingiustizie, tanto da ipotizzare una perenne condizione di uguaglianza, non solo all’inizio, ma anche alla fine di ogni percorso formativo. Mettere tutti sullo stesso piano, rappresenta oggi la distorsione dei valori e questa situazione diventa la base della nuova democrazia. Un appiattimento di meriti e demeriti. Una convinzione morale, secondo cui il tutto uguale riguarda non solo i diritti e doveri ma soprattutto i doveri. Quelli che dovrebbero definire una graduatoria di merito, in base all’ impegno e al talento naturale. Ai doveri e questa è la seconda condizione, si accompagnano i diritti. Che oggi non sono solo uguali per tutti, ma per alcuni sono ancora più uguali. Cosa intendo dire? Che tali diritti sono scesi dal piano della gente comune a quello individuale. Ognuno ne vanta dei suoi e questa condizione male intesa, diventa il sostanziale contrassegno di una democrazia malata. Di esempi ne esistono tanti ed in misura tale da rendere vano la possibilità di citarli tutti. Mi limito ad uno solo riguardante la diversità, detta anche disforia di genere, secondo la quale ogni individuo non si riconosce nel proprio sesso fenotipico assegnatogli alla nascita, ma sulla base di un suo diritto al cambiamento. In base al quale, diventa legittimo il desiderio appunto di diventare altro da quello stabilito dalla natura sulla base degli elementi anatomici. Il diritto al cambiamento dicevo. Trattasi allora di diritto o di un abuso di questo diritto, innescato dai condizionamenti delle mode o dalla semplice voglia di tentare  di intraprendere una strada di pura contestazione nei confronti di un divieto? Quasi a riaffermare una libertà perfino contro la natura (o meglio contro natura) che rischia di diventare arbitrio, ricoperto però da veste democratica?  Per la quale il diritto diventa desiderio. C’è ancora qualcuno che si ricorda della vecchia hybris della creazione? Ho citato la democrazia ed allora percorriamone il corso attraverso alcuni esponenti politici. Cominciamo dal grande commissario Domenico Arcuri. Chi è? ben pochi lo sanno. E cosa fa? Qui tutti lo sanno. E’ quello che si confonde un po’ su tutto, a cominciare dalla mascherine,  con un prima sì e poi un tardivo no, per giungere alle contraddittorie sue posizioni in merito ai  contagi e perfino sui vaccini. Per i primi, i contagi, le sue valutazioni sono molto, definiamole così, incomprensibilmente personali e così pure per quanto riguarda l’andamento della epidemia. Sentendolo è difficile comprenderne il senso e forse è pure inutile, in quanto le incoerenze sono tante che    una cosa rimanda al suo opposto. E che dire del ministro dell’economia Roberto Gualtieri che in primavera era partito da una previsione di sforamento di 3,5 miliardi e poi via via è stato costretto a moltiplicarla per 30 volte. Fino a giungere ai nostri giorni dove lui stesso non sa dove il valore moltiplicativo possa giungere. Vogliamo citare, un po’ a caso, altri esempi? Come la Ministra dell’istruzione Azzolina, quella dei banchi con le rotelle per finire con Giuseppi che a furia di dpcm che cambiano quasi ogni giorno, lui stesso non si raccapezza più?  Passiamo allora oltre la politica e parliamo della lingua che come tutte le lingue si modifica nel tempo. Inserendo nuovi lemmi per contaminazione con le mode e l’omogeneizzazione dei popoli per i quali si generano tanti neologismi. Mai come oggi il linguaggio definisce il significato che noi attribuiamo alla democrazia, che diventa appunto linguistica. Esistono infatti parole vietate e luoghi comuni. Per i secondi tutto va bene, anche perché degli oltre 16 mila vocaboli ne utilizziamo in media solo 400. Per le prime invece bisogna stare attenti. Il divieto di utilizzare certi termini diventa norma di legge. E chi li usa, acquisisce semplicemente il diritto di essere definito un reprobo, un razzista, meglio ancora un fascista. Parola questa fra le più utilizzate nella democrazia del tutto uguale, dove la definizione ed l’utilizzo delle parole, diventa il  mezzo oggi esistente per discriminare il buono progressista dal cattivo conservatore. Perfino la Chiesa ci mette del suo, riguardo alla nuova moda del fai da te, inteso non come unica, tradizionale dottrina, ma come tante dottrine che debbano corrispondere più che al volere dell’Uno solo ai desideri di ognuno. Anche in questo ambito la confusione regna sovrana. Il sacro e il profano si danno spesso la mano e si confondono fra loro. La Chiesa rischia in questo modo di frazionarsi in tante Chiese e un esempio lo abbiamo già adesso, in cui di fatto emerge già la preoccupante condizione  dell’esistenza di due Chiese. Quella del Papa, moderna e definiamola pure progressista per usare un termine politico e l’altra considerata arretrata ed arcaica il cui esponente è l’ex nunzio negli Usa, Carlo Maria Vigano’. Detto questo, si potrebbe finire di argomentare, se non parlassimo del popolo. Di noi, gente comune, che siamo fuori dal palazzo e che diventiamo l’oggetto di una democrazia che si esprime con la caratteristica della confusione. Ebbene anche noi abbiamo la nostra responsabilità. Subiamo ogni cosa per pigrizia che spesso vuol dire incapacità di avere idee e comportarsi coerentemente in base a queste. L’impreparazione  che diventa arroganza di potere da parte dei nostri governanti, si coniuga bene con  l’analoga impreparazione della gente. Che protesta a parole ma che poi si ferma lì senza dar corso a proteste, se non per casi particolari. Diciamocelo. Siamo disposti a tutto fuorchè cercare di cambiare lo stato dei fatti.  Per triste che sia non ci resta altro allora che accettare la nostra condizione. In fondo il potere politico e anche quello religioso trovano il terreno fertile proprio nel popolo bue, attraverso la comune mancanza di idee e di ideali. In quanto per ragioni diverse di cui mi sono limitato ad accennarne qualcuna, ci siamo atrofizzati in quello che un tempo era la capacità critica, onde vedere le cose per poi  saperle interpretare. Diciamocelo e mi ripeto, in modo chiaro. Chi ci governa è incapace quanto noi stessi. E il concetto di democrazia è entrato in crisi per mancanza di carburante cognitivo ed intellettivo. Per giunta non si vede come possiamo uscire da questa condizione paralizzante. L’asino difficilmente può diventare altro da sé. E poichè chi più chi meno, asini lo siamo tutti, il futuro sarà di quei pochi che per capacità  o protervia sapranno governare il mondo. Dove tutti staremo ad ubbidire  col capo chino senza nemmeno rendersi conto della subentrata alterazione fenotipica. Una disforia di genere chiamata gobba.       

La democrazia malata ovvero l’incapacità diffusa

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