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Giovedì, 25 Aprile 2024
Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

La messa in latino

Sì, esiste ancora la messa in latino. Sembrerà strano, ma esiste e persiste. Qui non si tratta di contrappore una vecchia liturgia ad una nuova che ha abolito la lingua dei Padri della Chiesa. Né si vuole sostenere per principio la superiorità, sotto il profilo religioso, di un rito sull’altro

Sì, esiste ancora la messa in latino. Sembrerà strano, ma esiste e persiste. Qui non si  tratta di contrappore una vecchia liturgia ad una nuova che ha abolito la lingua dei Padri della Chiesa. Né si vuole sostenere per principio la superiorità, sotto il profilo religioso,  di un rito sull’altro. Tutto questo ci condurrebbe ad entrare in un ambito teologico che non solo non mi compete, ma rischierebbe di indurci in tentazione. Nel senso di banalizzare  la questione ed affidare ad una liturgia un carattere più sacro che non all’altra. Poiché non esiste alcun intento di volere stabilire, volgarizzando, una graduatoria  in termini teologici, entro allora in medias re, quindi nel merito,   per segnalare la mia preferenza. Dove emozioni e ragioni stabiliscono e ripartiscono quasi in parti uguali, i modi di intendere sia i problemi della terra che quelli del cielo. Cominciamo allora con i problemi della terra, cui rimanda il latinorum del vecchio messale. Latinorum dicevo perché così viene inteso dalle persone semplici, ma non per questo meno votate, nella loro  semplicità, alle vere emozioni ,  col risultato di sollevare verso alto  lo sguardo del cuore che  illumina di immenso. Fede dunque come emozione nei confronti di un mistero che ben si traduce nel rituale di una lingua cosiddetta morta che per l’occasione viene resuscitata, dove il linguaggio sembra oscuro e per questo paradossalmente molto più capace di penetrare il mistero  che si situa al di fuori della ragione. Il cuore che prende il sopravvento, elabora  allora la spontaneità di un riflesso umano che si sostanzia nelle dimensione di riconoscere quella povera cosa che è l’uomo. Purezza di cuore e ricchezza  di sensazioni, che diventano poi sentimenti più elaborati. Ed infine pensieri coscienti capaci di far scoprire verità diversamente inintelligibili, se manca il volano della vocazione ad essere umili. Pensieri dicevo che diventano fatti reali, in cui i misteri della terra con le sue stagioni sia di vita che di tempo, legati alle preoccupazioni di dover affrontare le infinite tribolazione delle giornate. Le quali si susseguono fino ad arrivare al loro esaurimento, la fine appunto per ognuno di noi che non è mai prefissata e che trova la sua naturale giustificazione in quell’assurdo che la visione del cielo rimanda in terra a miracol  mostrare, con la promessa di una seconda vita. Quella eterna. Fatica e lavoro trovano allora il loro conforto in quelle preci dal linguaggio poco comprensibile che però contiene la verità di almeno due millenni di tradizione. In cui si ritrovano le forme espressive delle tante generazioni che ci hanno preceduto impegnate nell’eterno gioco della vita  che  ci lascia quando meno te l’aspetti. Tradizione quindi come conforto, come strumento per non sentirsi soli, anche quando gli affetti se ne sono andati. Perché, lo sappiamo, la vita è quello che è. Ma attenzione, in questa tradizione c’è il senso delle bellezza che si sostanzia nel verso oscuro, ma armonioso. Bellezza istintiva, incomprensibile, ma vera forse proprio perché sfugge ad ogni catalogazione razionale. Ti entra dentro e ti lega all’incomprensibile appunto perché non è accessibile alla sola ragione. Necessita di un solo ingrediente: l’umiltà di sentire ed ascoltare. Specie quando il canto  e parlo del canto gregoriano, si modella su note ripetute, ossessivamente ripetute, con un variare di quei segni quadrati sul pentagramma che mai stravolgono quella linearità di fondo, che trova nelle vocali che si alternano la loro piena realizzazione in una melodia che tende a salire verso altri confini. Oltre navate e cupole  per perdersi liberamente nello spazio dei cieli, i quali  anche se non più concentrici, rimandano sempre  a quel mistero che da Tolomeo a Galileo e ai prossimi viaggi interplanetari non perderà mai il suo fascino attrattivo dell’ inspiegabilità. Il cielo dunque  è la seconda questione che la vecchia liturgia evoca, anche per quelle persone più acculturate che sanno interpretare il linguaggio antico.  Che già “dall’introibo” hanno la sensazione di una espressione linguistica che  per altre vie entra nel pensiero razionale e da questo poi nell’anima. Trattasi di un percorso inverso rispetto al precedente, dove la cultura non sempre può contare sul cuore. Tuttavia anch’essa ha le sue ragioni ed emozioni.  Lo dimostra il   verso” coeli narrant gloriam dei,”che  rappresenta un linguaggio universale. Sa di eternità consolante e di speranza non disgiunta dall’idea della nostra piccolezza. Grandezza e miseria si confrontano e si scontrano. Dentro quel verso, sentiamo anche la nostra tradizione letteraria. Dante ed il suo Paradiso ci vengono alla mente ed improvvisamente ci appaiono i Santi e la Vergine con la sua veste azzurra che scende dal cielo e compare in terra per dimostrare che i due mondi non sono separati. Che le nostre primavere, fatte di canti gioiosi, di messi  dorate e di ragazze in fiore, rimandano ad un’altra Primavera dove l’aria  senza dubbio  impalpabile darà alle cose altri significati. In una atmosfera di beatitudine, nella quale sempre  per evocare Dante, la guida Virgilio lascerà il posto  ad un’altra Guida, che non sarà neppure Beatrice ma Colui che è e sarà in eterno. Dall’introibo passiamo agli “oremus”, i quali ripetuti e insistiti invitano al raccoglimento e alla preghiera. Ma senza costrizione, solo con il concorso della sincera contrizione. Il linguaggio latino non fa sconti con il suo procedere pieno e sonoro, per rischiarare più di ogni altra cosa il cammino, con quel “lumen de lumine” inserito  nel Credo che sgombra ogni nube dalla nostra mente e ci dona il senso pieno della nostra condizione oscillante fra due possibilità. Fra luci ed ombre, ma con la presenza di un  raggio consolatore che appunto illumina la strada. La dimostrazione la troviamo   nel “prefazio” della messa per i defunti che infatti ci dice:  “vita mutatur non tollitur”  a significare che quello che ci è dato in consegna finisce per non finire mai, a patto di credere. Ecco allora perché la messa in latino traduce con questa locuzione meglio di ogni altra frase, il senso della vita che prosegue. In essa ritroviamo  i Padri della Chiesa,  San Paolo e Sant’Agostino ed i primi Papi . Nella forma latina tutta la tradizione si concentra e ci colpisce sollevandosi. Se la bellezza più autentica, la troveremo nella seconda vita, un anticipo lo riscontriamo nel bel linguaggio latino a volte ornato d’eleganza altre volte sinteticamente conciso, ma sempre inducente al fascino nascosto. Ovviamente ognuno valuti e pensi in base alla propria sensibilità. Chitarre ed organo rappresentano due espressioni musicali diverse. Nessun conflitto di mezzi musicali. E nessuna campagna a favore dell’uno o dell’altro. Solo una preferenza a livello personale perché ognuno possa liberamente valutare e poi scegliere. La mia preferenza per le ragioni un po’ confusamente dette, io l’ho fatta. Ed il luogo del linguaggio resuscitato è San Giorgino in sopramuro, la domenica alle ore, 11’15. Venite, missa est.       

La messa in latino

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