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Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

La teologia al femminile

Ci mancava anche questa, oltre alla parità di genere. Infatti una ossessione sta caratterizzando i nostri tempi.  Il maschile in crisi come genere, arranca anche nelle parole, poiché i generi non sono solo due, ma si arricchiscono quasi ogni giorno di nuovi arrivati. Quindi anche nell’uso delle parole bisogna adattarsi al nuovo vocabolario che purtroppo nella nostra lingua non comprende il neutro. A differenza della lingua latina, ormai dimenticata e del greco o delle lingue germaniche. Dunque bisogna correre ai ripari. Per questo ci pensano le femministe o per estensione del termine, il genere oggi dominante, causa una silente rivoluzione dei costumi che vede ad esempio la parola padre come un fonema antimoderno. Anzi come una sopravvivenza di un costume antico e superato che nel maschile trovava una sorte di supremazia del vivere. Perfino nello stato di diritto che riconosceva all’uomo una condizione di privilegio in merito a questioni inerenti lo stato familiare e le condizioni di lavoro. Del padre infatti oggi rimane ben poco. La sua etimologia ha perso valore e la stessa figura del suo ruolo anche nella stessa famiglia, si cerca in tutti i modi di ridimensionare. In quanto considerato portatore di una cosiddetta e presunta superiorità di un genere, oggi identificato con il sopruso e l’arbitrio.  Da sostituire al più preso col suo corrispettivo femminile, che come ci ricorda la parola madre, rappresenta la riscoperta moderna di un ruolo legato da sempre ad una superiorità di natura legata all’origine della vita. Ma anche e soprattutto nei tempi attuali ad una rappresentatività nel campo sociale sempre più attuata secondo un concetto di indipendenza dall’uomo. Per il fatto che quest’ultimo non sembra più indispensabile, sia come elemento di riproduzione sia nella forma di sostentamento economico. Ma se tutto questo costituisce l’evoluzione dei tempi, il cosiddetto zeitgeist, non si poteva pensare che anche la teologia potesse subire gli stessi cambiamenti. Ci ha pensato una teologa norvegese a fare chiarezza. Ma non riferendosi al solo fatto di costume e alla tradizione chiesastica di rivolgersi ai fedeli con la formula: fratelli e sorelle, mettendo al primo posto il maschile. Il che sarebbe troppo banale e non meritevole di discussione. No, bisogna andare più in alto. Anzi e solo verso l’alto. E cosi facendo non rimane che contestare l’essenza stessa della religione.  A quel Dio così chiamato dai cristiani che con la sua desinenza in o fa pensare al genere oggi in disarmo. Ad una natura religiosa che del maschile ancora vorrebbe dimostrare che da lì tutto deriva. Relegando pertanto il femminile in una posiziona discriminata e subalterna. Ad una specie di natura e figura comprimaria, che se ha come punto di riferimento la Madonna, madre di Cristo (altra figura maschile) non rappresenta la vera origine di quella teofania che si configura ancora con le caratteristiche maschili. Che dire? Secoli di tradizioni e di culti errati? Lo stesso giardino dell’Eden, citato nel libro biblico della Genesi, in cui Dio pose a vivere la prima coppia umana, dopo aver creato l’uomo maschio e quindi   da una sua costola la donna? E che dire allora della bibbia ebraica, dove esiste il tetragramma sacro YHWH che tradotto in Yahweh, non è lecito neppure pronunciare. In quanto rappresentando l’essenza della stessa divinità, non deve commisurarsi con le considerazioni e miserie umane. Troppo superiore la sua natura, per poter essere addirittura pronunciata dall’uomo. In questo modo, si vuole intendere che trattasi di una essenza talmente trascendente che supera gli stessi attributi razionali di qualsiasi condizione umana. Dunque ed allora per scendere ai nostri livelli, che ogni giorno ci dobbiamo misurare con la banalità del vivere, quel Dio ebraico non è né uomo né donna. In quanto troppo superiore, come detto, a quel genere che noi umani siamo portati ad attribuirgli, causa i nostri condizionamenti, troppo legati alle nostre volgari valutazioni. Da quel Yhaweh ebraico il passo al Dio cristiano è conseguente. Ed il riferimento va a quell’episodio di quel Dio che appare a Mosè a proposito di quel roveto ardente sul monte Oreb con la frase “Io sono colui che sono”. Da quell’episodio ne derivano secoli di tradizioni di tipo non solo religioso, ma letterario con infinite rappresentazioni artistiche da parte di ingegni pittorici, di cui ricordiamo, per fare un esempio, quell’immagine di Michelangelo, dove il divino soffio della vita si genera con le dita di Dio e quelle di Adamo che quasi si toccano. Ebbene tutte queste visioni d’arte e religiose, sono ormai entrate nelle nostre cellule ed hanno prodotto una condizione mentale e psicologica ormai al di sopra di ogni possibile contestazione. Per questa ragione, diventa inutile a questo punto criticare quel detto dove “il colui” sta al posto di quel “colei” che avrebbe dovuto essere, secondo la nostra teologa. Infatti meglio a questo punto intenderci. Perchè trattasi o di fede autentica oppure di qualche interpretazione femminista che presentandosi sotto l’aspetto di una giustificazione teologica, vuole mettere in dubbio l’essenza stessa del credere.  In quanto la fede si alimenta di ogni riferimento umano, che come detto nei vari campi della creazione artistica, si è ormai stabilmente inserita. Rapportandola simbolicamente a quella creazione celeste che va presa per intero senza alcun tentennamento. Altrimenti il gioco intellettuale della nostra teologa, diventa solo quello di immiserire il mistero che tanto ha stimolato la creatività dell’uomo, onde sostituirlo con la banalità dell’uso di un genere che del maschile e del femminile può riguardare solo la moda dell’oggi, ma non quello spirito del tempo che fugge in ben altra dimensione, per uscire dal contingente e perdersi nell’eterno. Dunque e per concludere si rassegni la nostra teologa. Dio è in terra ed in ogni luogo come diceva la dottrina cristiana che abbiamo imparato da bambini e se trattasi di maschio o femmina non ha importanza. La fede infatti è qualcosa di diverso e di non decifrabile secondo le istanze umane. Non segue le mode e neppure i generi. Per questo motivo le stesse parole sono solo il mezzo per mettersi in relazione con: colui che è.  E di cui non è lecito parlarne. Solo immaginarlo, in modo che ognuno possa realizzarlo nella propria mente. A quel punto, se diventa lecito rappresentarlo secondo le nostre categorie, comprese anche quelle del lessico, che sia maschio o femmina, non ha importanza.  Riguarda solo chi si rifiuta di dare spazio a tutto ciò che ci trascende. Ammesso e non concesso il bisogno di riferirci a quel Dio che atterra e suscita ma che affanna e ci consola, come diceva il Manzoni. Lo stesso vale per chi si definisce teologo. Anzi, per metter il lessico a posto, meglio precisare chi ama definirsi teologa.

La teologia al femminile

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