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Martedì, 16 Aprile 2024
Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Non dire più buon Natale, ma buona festa

Viviamo in una situazione di neopaganesimo. O meglio di un nichilismo che impedisce ad ognuno di pensare possa esistere una verità. Basta guardarci attorno e vedere i comportamenti della gente e poi valutare  la realtà. Ogni strada luccica di vetrine e addobbi natalizi. Forse mai come quest’anno le luminarie si sono moltiplicate. La paura del virus ha creato una nuova paura. Quella ancora peggiore di  pensare di rimanere soli, isolati e senza la soddisfazione di riversarsi nei luoghi pubblici alla ricerca di qualcosa, nei giorni in cui la super green pass lo permette. Cosa esattamente sia, questa tensione a  reagire al nulla che abbiamo dentro, non si sa. Ma si sa che bisogna fare acquisti. Per la verità oggi , causa la paura della pandemia, gli acquisti sono in calo ed i regali spesso inutili o futili, lasciano il passo agli acquisti on line. Anch’essi però sempre inutili o futili. I negozi dalle vetrine luccicanti  ed addobbati di ogni mercanzia secondo tradizione, si sentono orfani della gente che guarda dal di fuori  e poi non entra. Ed i vari mercatini che della loro presenza, riempiono  ogni piazza di paese, piangono la loro solitudine. Il timore a nostra volta, come dicevo, di essere soli ci ricorda, che la vita è condizionata anche dal desiderio di non essere abbandonati alla dimenticanza, nella società come la nostra dove domina l’apparire. Mentre dell’Apparizione cisi dimentica . Tutto luccica e tutto in questi giorni segue un rituale che serve a dimostrare che siamo anche corpo e che esiste una realtà che non è solo quella virtuale che nei più giovani, sempre col cellulare in mano, ha sostituito quella che noi adulti, osserviamo con disincanto tutti i giorni. Ma ci vuole appunto l’età adulta. Particolare questo che nei rapporti con i giovani, ci rende dei sopravvissuti nei confronti di un mondo cambiato e che vive di comportamenti tutti uguali, dettati dal modo di intendere oggi il progresso. Anche il Natale risente di questo cosiddetto modo di intendere le cose. La sua primitiva concezione religiosa si è persa nel vortice di una vita convulsa che non tiene conto del passato e del futuro.  Essa infatti  si misura solo  nel tempo presente, quello dell’oggi, da soddisfare in qualsiasi situazione, attraverso la ricerca della felicità anche se momentanea. Quale questa sia, meglio non chiederlo per non rischiare di dover affrontare una delusione attraverso il riaffiorare dei ricordi. E quale in effetti sia questa felicità, tutta terrena, cui rivolgere ogni nostro pensiero, ce la ricorda il poeta romano e romanesco Trilussa. Eccola. Un’ape si deposita sul bocciolo di rosa ne succhia il nettare e poi vola via. Questa allora è la felicità dell’oggi. Il Natale dicevo. E qualche ricordo lo risveglia nella dimenticanza generale di una vita che deve essere vissuta freneticamente pensando, come dicevo, a raggiungere quell’attimo di felicità che poi svanisce subito, lasciandoci nell’insoddisfazione più avvilente. Del passato ormai morto, qualcosa si risveglia dell’antica rappresentazione di una nascita che riguarda un bambino, ma simbolicamente  e meteorologicamente, rappresenta anche la fine del solstizio d’inverno e la nascita del primo spiraglio di luce che contribuisce a fendere di quel misero tempo ( qualche minuto) i giorni più bui dell’anno. Ma chi è quel bambino? Il figlio di Dio? Ma chi ci crede? Storie, fantasie, illusioni, si mescolano per  andare in sintonia con i tempi moderni, votati all’incredulità dei fatti antichi che al massimo risvegliano qualche emozione. Ma nulla più. La ragione oggi ha altri parametri cui credere. Ma ritorniamo al passato e alla rappresentazione di quello che è o sarebbe stato oltre duemila anni fa in quella città della Giudea che si chiama Betlemme. E che per vecchia tradizione popolare viene condensato nel presepio. Osserviamolo il presepio. Per prima cosa ci appare la culla che è una mangiatoia, dove il padrone ammannisce il fieno e la biada, inserita in una  stalla che è la casa e la prigione delle bestie, sporca buia e maleodorante. Ebbene in quel luogo fra i più luridi al mondo, secondo la tradizione, sarebbe nato il Re dei Re. Colui che nato povero si conservò sempre tale anche nella vita adulta, rifiutando gli allettamenti del demonio e continuando a predicare, sul monte delle beatitudini, le condizioni perché i poveri di spirito possano raggiungere il regno dei cieli. Fantasie dicevo, storia di un'altra e quasi dimenticata epoca, ma, riconosciamolo, ben rappresentata con il ricorso della fantasia creativa, tanto da sembrare vera. Ma c’è dell’altro per arricchire la scena,  e sono i personaggi.  I primi sono i pastori che nella loro vita isolata e misera, come guardiani delle bestie, non sanno nulla del mondo lontano e delle feste che in altri luoghi si tengono. Eppure  accorrono, mossi dalla luce e dalla parole dell’angelo a contemplare quella nascita. Ma, correggendomi, prima ancora dei pastori, vengono gli animali che adorano il bambino e non importa se questi sono stati aggiunti in epoche successive. Perché entrambi soddisfano il senso della favola con il loro simbolismo pieno di avvenimenti immersi fra storia e  leggenda. E parlo dell’ asino e del bue che riscaldano il bambino con i loro fiati,  simboli di essere semplici, mansueti ed innocenti forse ancora più dei bambini, che saranno i prediletti del futuro Salvatore del mondo. Due animali che vantano tradizioni, come dicevo, ricche di significati. L’asino consacrato in Grecia e poi l’asina di Balaam che parla e salva il profeta, senza dimenticare il fatto storico dello stesso animale che insieme al suo asinaio, appare ad Ottaviano prima della battaglia di Azio, ed a cui l’imperatore attribuisce il merito della vittoria. Il secondo animale è il bue, simbolo di potenza e mansuetudine, che nella poesia del Carducci diventa pio ed infonde un sentimento di vigore e di pace. Ma continuiamo, perchè  di questa quasi incredibile favola della miracolosa nascita, non abbiamo ancora detto tutto. Dopo gli animali ed i pastori, che sono le figure semplici del presepio, arrivano dalla Caldea gli ultimi personaggi, I quali dopo aver attraversato con i loro cammelli il Tigri e l’Eufrate, giungono alla capanna. Chi sono costoro che per individuare il luogo giusto della nascita, Dio, ha dovuto cambiare il corso di una stella? Sono i tre Magi dai nomi stravaganti ed oggi poco ricordati, detentori del sapere, profeti che interpretavano i sogni e guidavano i Re in nome della loro scienza e della  loro religione. Insomma possedevano i segreti della terra e del cielo  e rappresentano la scienza che si inginocchia di fronte all’innocenza. Mentre  a sua volta la ricchezza attraverso i doni dell’oro, incenso e mirra, offerti al bambino, si umilia di fronte alla povertà. Fantasie di storie immaginate, queste dicevo prima, ma che lasciano in noi, attraverso il ricordo, una non ancora sopita speranza. Per la quale siamo fatti non solo di corpo, ma anche di spirito, nonostante la scienza oggi sembra dimentica di questa nostra componente. Un esempio per  tutti, ce la offre ,quasi come ammonimento, Emanuele Severino, uno dei maggiori filosofi del nostro secolo e da non molto tempo deceduto. Insegnante all’università cattolica di Milano dal 1954 al 1969, entra in conflitto, come un novello Galileo, con la Chiesa quindi, per aver sostenuto il pessimismo del cristianesimo come spiegazione dell’esistenza. Allontanato per questo dall’insegnamento di una facoltà cattolica, conferma la sua critica ed entra in una logica Parmenidea. In cui l’essere è, mentre il non essere non è. Dunque in sintesi la sua filosofia si basa tutta sull’esistenza dell’essere.  Che diventa immortale appunto perché è, ma non si identifica con Dio in quanto il Creatore per i fedeli esiste solo come ipotesi, ma non si può dire che è. Quanta differenza con i sapienti re Magi. La conclusione è che sono passati più di venti secoli ed il mondo sembra cambiato. Il sacro è stato quasi espulso dal mondo e perfino dalle chiese, dove le funzioni sono subordinate al volere dei vari Dpcm e dei  comitati scientifici. Disinfettarsi le mani all’entrata e poi posizionarsi rispettando la distanza, costituisce un obbligo che da sociale è diventato religioso ed a cui si fa fatica pensare alla casa del Signore. Che dovrebbe essere sempre aperta verso tutti gli uomini. Non per la loro condizione corporea, ma solo perché animati da buona volontà. L’impressione che questo modo di subordinare il sacro agli imperativi delle esigenze della salute, contrapposta alla salvezza, trovi anche la non dichiarata opposizione da parte dei sacerdoti. Un segno dei tempi questo che ci regala un modello sociale di luci apparenti e di idee stereotipate, secondo le quali bisogna ubbidire a quanto ci viene imposto, al fine di  essere considerati buoni e bravi. Ed anche religiosi. La via, la verità e la vita,  l’insegnamento di  quel bambino che poi diventerà adulto, è allora solo un  retaggio del passato? La favola bella che ieri t’illuse ed oggi mi illude o Ermione, figura quest’ultima della mitologia greca, come ci ricorda  D’Annunzio, sembra abbia preso il sopravvento rispetto a quel che resta del nostro sentimento religioso, immerso in un ricordo offuscato. Opporsi a questo stato di cose è la nostra più scandalosa speranza ed il Buon Natale opposto ad un semplice ed anonimo augurio di buona festa ne diventa la vera e forse anche l’ultima speranza.

Non dire più buon Natale, ma buona festa

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