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Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

«Non più San Sepolcro ma San Daniele»

La Chiesa di San Sepolcro, progettata dall'architetto Tramello, cambia destinazione d'uso, passando agli Ortodossi romeni. E' una novità positiva: così questo tempio può ritrovare vigore

Periodo il nostro di grandi trasformazioni, inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Professioni, costumi, stili di vita e tutta quanta la realtà che ci circonda, si evolvono con un ritmo talmente rapido e poco controllabile, per cui ne ricaviamo l’impressione di essere più  dei succubi che degli artefici  di questa  evoluzione. Insomma oggi più che mai la società si divide  in due parti. Gli uni (gli anziani) guardano nostalgicamente indietro, perché non ce la fanno a tenere il passo troppo veloce dei tempi, gli altri (i giovani) si proiettano quasi ossessivamente in avanti rivestendo di speranza e di ottimismo un futuro che, per loro, non può essere che caro, buono e bello, qualunque sia la condizione sfavorevole, di partenza. Niente di nuovo sotto il sole, perché da sempre in questo modo, vanno le cose. Quello che però mi preme dire è che in mezzo a questo vortice di cambiamento qualcosa sembrava  fino a ieri resistere. Proprio perché su questo punto c’è (c’era) un detto  latino che grosso modo fa (faceva) così: dum volviturorbis, statcrux.  

Non preoccupatevi di questa citazione nella lingua di Cicerone, linguaggio oggi moriente perché per paura di sembrare retrogradi, noi italiani, siamo stati i primi a non difenderlo dall’invasione della lingua inglese. Che oggi vanta il diritto dell’universalità dell’esprimersi. Ma ritornando al latino e al detto, dove voglio andare a parare? Naturaliter (sono o no moderno?) della Croce, quindi della Chiesa che rimane ferma nonostante le evoluzioni del mondo. Sembrerebbe sia così, invece qualcosa cambia anche dalle parti della Sacra Istituzione , dove ancora sopravvive (anche se in fase agonica) sia il latino sia la tradizione dioltre duemila anni di detti, scritti e atti. Intendiamoci, non si tratta di questioni teologiche che riguardano gli aspetti divini (ed in questo senso la frase prima menzionata conserva tutta la sua validità) ma quelli invece dipendenti dall’uomo. E trattasi banalmente  di muri, absidi, campanili, e navate. Insomma, per arrivare al dunque,  si tratta di quella chiesa situata a Piacenza lungo l’antica via Romea, edificata dal nostro grande architetto, Alessio Tramello all’inizio del sedicesimo secolo. La quale chiesa cambia per così dire destinazione d’uso.

Infatti, in questi giorni, è stata firmata una convenzione con il Demanio, proprietario dell’immobile, con il vicario della nostra diocesi, Monsignor Giuseppe Illica secondo il quale accordo, l’antico tempio da cristiano cattolico, pur rimanendo sempre cristiano, diventa ortodosso. Il tempio sarà quindi gestito dal Patriarcato di Bucarest e accoglierà i numerosi fedeli ortodossi presenti nella nostra città, in sostituzione dell’attuale  luogo di culto dedicato a  Santo Stefano e situato in Via Scalabrini. Ormai diventato insufficiente, causa questione di spazio, per ospitare tutti  i fedeli di estrazione ortodossa che nella nostra città rappresentano una comunità di circa 3-4 mila persone. Che dire. Nostalgia del passato per  la perdita  di una chiesa cattolica? 

Per alcuni potrà anche  essere, per altriviceversa non si vede motivo per il pianto del coccodrillo, per almeno due motivi. Vuoi perché, fra questi ultimi, c’era una quota di assenti da ogni frequentazione del tempio. Vuoi perché i pochi assidui di cose liturgiche, causa anche un quartiere cittadino ( di cui la parrocchia faceva parte) impoverito di famiglie, avranno la possibilità di frequentare un’altra chiesa, quella di San Giuseppe, più comunemente considerata chiesa dell’Ospedale. Quindi anche questi ultimi dovrebbero salutare positivamente questa nuova infusione di religiosità cristiana in un tempio altrimenti destinato a chiusura. Onde privilegiare , ritornando all’evoluzione di cui parlavo all’inizio, lo sguardo verso il futuro piuttosto che  volgersi in dietro fingendo di rimpiange un rito cattolico celebrato a navate vuote . Infatti qui non si tratta di affrontare  questioni teologiche  che dal lontano scisma del 1054 dividono  cattolici e ortodossi, sulla vexata quaestio del “filioque“. Secondo la quale nel Simbolo (il Credo), lo Spirito Santo, procede dal Padre e dal Figlio e non per mezzo (del Figlio) come invece sostengono quelli di fede ortodossa. Fra una congiunzione e una preposizione il divario  infatti, non mi sembra così grande da giustificare oltre mille anni di divisioni  aggravate anche dalle  rispettive scomuniche. L’impressione è che se non ci fossero di mezzo incomprensioni umane tipiche di ogni disputa,  a volte ancor più  evidenti in campo religioso eche si sono vieppiù ingrandite nei tempi, verosimilmente tale problema teologico avrebbe potuto trovare una soluzione accettabile per entrambe le parti. Comunque stando così le cose, si intravede oggi ( l’iniziativa fra l’altro è già iniziata con Paolo VI) la necessità di un ritorno all’unità dei cristiani.

E questo per almeno due  motivi. Primo, perché  l’attuale processo di desacralizzazione cui si è girato il nostro mondo occidentale con un ritorno  di fatto ad un neopaganesimo, ha preferito sostituire i vecchi altari con i nuovi dove si venerano  gli idoli ( idolaurbis) legati alla comodità del vivere. Secondo, che riguarda invece un aspetto non di casa nostra ma diquella altrui. Il pericolo  cioè dell’invasione di una religione, quella islamica, che viaggia in modo contrario all’andazzo dei tempi,  manifestando invece  una sacralità straripante, anzi ossessiva. Al punto che ogni norma , ogni atto, ogni comportamento  anche in campocivile, non può prescindere dall’essere sottoposto alla legge di Dio. Quale il futuro destino fra  questi due fedi, fra  cose esclusivamente umane e quelle solo divine? L’attuale  situazione sembra facciapendere la bilancia verso l’imposizione teocratica che in effetti sta guadagnando adepti e terreno. Sia perché ricorre spesso e volentieri all’uso della violenza per convincere i recalcitranti, sia  perché c’è una moltitudine  di  illusi e delusiche si sono accorti  di come  il frigorifero, anche se pieno, non è sempre sufficiente a saziarli. 

In quanto persiste, nonostante tutto, una fame di cose non materiali che riguardano i soliti problemi che da sempre affliggono l’uomo: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Nei confronti dei quali, il companatico giusto non si trova sul mercato alimentare. Ecco allora perché il nuovo tempio, in cui l’antica liturgia di una fede in via di estinzione, viene rinvigorita da quella ortodossa che vanta il seguito di una numerosa comunità, deve essere valutato in modo positivo. Addirittura da salutare come un baluardo a difesa del sacro cristiano (anche se ortodosso), basato, come si sa, sull’amore e la libertà, nei confronti di  quello islamico che  viceversa  professa l’odio verso i nemici, considerati per questo infedeli. Per chiudere, lasciando la questione teologica ai teologi, aggiungo che ame la parola ortodossia che, come sappiamo, vuol dire pensare in modo retto, piace anche etimologicamente. Quindi, anche sul piano linguistico non posso che dire bene (da cui il benedire liturgico) sulla questione della vecchia chiesa che si appresta, secondo il nuovo rito, a rinascere. Persino il nome Daniele, profeta dell’antico testamento, cui sarà intitolata la chiesa ci può aiutare in questo senso. Infatti in ebraico- aramaico sta a significare: giudice. E chi è il vero  giudice di ogni questione se non Dio?

«Non più San Sepolcro ma San Daniele»

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