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Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Povera e nuda vai…teologia

È questa la celebre frase del Petrarca, ma con una modifica. Che riguarda l’aver sostituito il termine filosofia con teologia. Il perché è semplice. Infatti se la filosofia oggigiorno boccheggia, la teologia si può dire sia scomparsa, o  quasi. La vita odierna non si interessa di problemi legati alla teologia, che riguardano un fine preciso della vita. Quello che interessa il rapporto uomo- Dio. Ecco allora il punto. Dio non fa più parte del modo di intendere la vita. Troppo arduo pensarlo e troppo faticoso ammetterlo. In entrambi i casi infatti, bisogna vivere secondo principi etici e religiosi che sono finalizzati a quel premio che dovremmo attendere, se siamo stati buoni. Intendendo con questo termine se ci siamo comportati come la teologia prescrive. Ma che diamine. Chi oggi rinuncia a voler rimandare quel poco di gioia che la vita ci riserva, fra i tanti e troppi problemi che invece ci riguardano, solo per meritare il premio futuro di una seconda vita? Meglio invece vivere per quel tanto che la vita ci riserva in termini di soddisfazioni. La soluzione appare una sola: vivere senza pensare a niente. Meglio ancora, vivere pensando che la vita è quella che è.  E quindi cercare in tutti i modi di evitare le complicazioni che pur ci sono. Evitare, dicevo, ogni preoccupazione inutile, inserendo fra queste la paura della morte. In fondo questa paura viene anticipata  nella vita di tutti i giorni da un'altra paura: la malattia  o la povertà. Entrambe devono allora essere il più possibile  schivate. Come? Chiudersi nel proprio egoismo e guardare soprattutto al proprio io. L’umanità si riduce allora ad un rapporto fra uomini che non si parlano. Esistiamo noi e gli altri a patto che questi altri non ci diano problemi. Altrimenti questi altri diventano  dei non uomini che al massimo si guardano in superficie. senza pensare di cogliere la loro umanità. In fondo questo egoismo non è poi tanto male. Infatti se tutti ci riconosciamo in questa linea di comportamento, solo allora diventiamo uguali in un conformismo superficiale. Ed in questo modo si aboliscono paradossalmente  le differenze fra noi egli altri. Ma c’è un problema: per diventare uguali bisogna ragionare in modo simile. Altrimenti nascono le contrapposizioni  e queste portano alla separazione della vita di relazione. L’unica che ci consente di vivere formalmente, ma senza vivere. Ecco allora il punto. L’individualismo  si giustifica solo se questo è condiviso  dagli altri.  In pratica se pensiamo di uniformare gli egoismi con l’illusione  di  essere o diventare per convenienza  tutti uguali. In quanto ce lo raccomanda un comune denominatore. Questo. Vivere la vita  come fine, senza pensare, come dice la teologia, ad un fine diverso. Contraddizioni queste, lo so, ma insistendo, è l’unico modo  per  affrontare, oggi,  la vita.    Onde evitare per quanto possibile ogni dolore, ogni  fatica e sfuggire come la peste ogni esigenza particolare. Si comincia col pensiero unico che rappresenta un modo di uniformarci ad una presunta  e condivisa  verità, senza volerlo o  doverla contraddire.  Costerebbe troppa fatica fare, con il danno poi  di dover rispondere alle possibili reazioni critiche. In grado  queste ultime di alterare la tranquillità raggiunta nel regno del tutti uguali. O meglio ancora, nel regno del tutti con lo stesso cervello. Quello che voglio dire, riguarda allora  il modo di coniugare l’egoismo individuale dentro un egoismo di gruppo, come condizione per assecondare il sistema. A patto che  questo sistema ti lasci vivere, senza incidere troppo con leggi o principi morali a ledere il tuo diritto di evitare le preoccupazioni e tutto quello che di non allineato passa il convento, inteso come vita. Insomma vivere e lasciare vivere diventa  l’unico modo per continuare il tran tran quotidiano, perché ogni diniego costa. Dire di no a qualcuno presuppone assumersi una responsabilità e giustificare il no. Meglio non insistere. Meglio non evocare le ragioni. Meglio non perdere tempo e voglia a spiegare i motivi. In fondo cos’è la vita se non una occasione per non faticare oltre il dovuto e per  cercare di cogliere  qualche soddisfazione. Frustrati come siamo dai dispiaceri e dagli eventi infausti come  malattie, danni geologici oppure dalle pandemie come quella che dobbiamo oggi affrontare con tutti i rischi  annessi e connessi.  Dunque urge reagire. Come?  Superare il buono ed il cattivo, vale a dire il concetto morale e vivere la vita per quello che è. Ed anche per quello che ci dà. Importante non è pensare ad un domani ipotetico, ma solo all’oggi, perchè è il nostro corpo  che diventa il nucleo essenziale ed unico  della nostra esistenza. Non ne esiste un altro. Dunque l’imperativo da cogliere è la lotta al dolore e a tutto quanto ha a che fare con l’insoddisfazione ed in generale con la sofferenza. Ritorniamo allora alla teologia che ci insegnava come non era possibile, ridurci al solo corpo, per la presenza dell’anima. Secondo la quale ogni dolore in vita doveva essere accettato con fede in quanto funzionale ad una seconda vita, quella eterna. Ma oggi chi ci crede? La dicotomia corpo- anima ha sovvertito il  senso  dell’importanza da dare a queste due entità, al punto che l ‘anima è stata abolita e tutto pende e dipende dal corpo. Quest’ultimo diventa l’ anima mundi  e rappresenta il contrassegno del vivere odierno. Il coraggio è stato abolito come pure gli ideali di un tempo ormai passato, compreso ogni altro tentativo di una vita fuori dagli schemi. Ogni dolore deve essere evitato quando si può. Viceversa quando non si può, i farmaci servono a quello. Meno risolvibile è la sofferenza che riconosce un apporto che non è solo corporeo, ma psichico se consideriamo la psiche cosa diversa. Ma anche questa disavventura si può contenere, evitando le occasioni pericolose e gravide di tensioni.  Comprendendo perfino quelle dell’amore, quando rischia di diventare troppo pregnante e carico di timori nelle aspettative, col rischio di soffrire e far soffrire. Anestetizzare la società diventa l’obbligo da dover cogliere pe realizzare il solo benessere cui tendiamo: quello dell’unica realtà, il corpo. Perfino la morte   non deve fare più paura.  La soluzione infatti è la sua esorcizzazione, oppure l’inganno di definirla dolce. Infatti la dolce morte si raggiunge attraverso un procedimento semplice. Basta una iniezione che ci consente di evitare l’elaborazione di quanto sta accadendo, evitandoci inutili e futili  preoccupazioni. Ed il tutto senza riti particolari e senza le coreografie tradizionali di immagini falsamente pietose. Dunque, come dicevo, la teologia è morta, sostituita dalla rivoluzione tecnologica, cui affidiamo il destino del corpo pensando che questo, e solo questo, possa diventare immortale. Ecco il mondo di oggi. Per coloro a cui piace si può dire che siamo troppo vivi per morire. Per quelli che lo contestano, vale l’opposto: siamo già troppo morti per continuare a  vivere. Infine per gli ultimi, i seguaci rimasti della teologia, vale invece  l’antico principio: viviamo portando la croce in vista della vera vita. Quella dell’eterno domani. Indubbiamente una bella consolazione.   

   

Povera e nuda vai…teologia

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