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Sabato, 20 Aprile 2024
Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Quel che resta del cristianesimo

Con questo titolo, lo dico subito, non voglio impancarmi a teologo.  Anche perchè per la verità, non ho mai avuta molta stima dei teologi. Spesso l’un contro l’altro armati, su questioni che inducono a spiegare la verità in fatto di fede. Infatti proprio della verità voglio parlarvi. Intendiamoci in base alle omelie che ascolto durante le varie funzioni religiose, mi sembra che attualmente  una parte della Chiesa stia attraversando un periodo di confusione proprio a questo riguardo. Impressioni. Per dare credito a queste impressioni, sembrano scomparire dall’armamentario di molti sacerdoti, termini come Novissimi che in base alla translitterazione del termine latino, Novissima, si intendono le cose ultime che capitano all’uomo.  Le cito: morte, giudizio, inferno e paradiso. Ebbene se della morte si parla anche troppo specie in questi tempi di pandemia, del giudizio divino è scesa quasi una coltre di nebbia, a dimostrare che non si tratta di un vero giudizio che spinge l’umanità, una volta esaurita l’avventura terrena, fra  questi due estremi. Quello della dannazione eterna e l’altro della  piena  beatitudine legata alla condivisione della gloria di Dio. Uno spirito di tolleranza sembra  infatti abbia pervaso la dottrina cristiana,  come se si avesse timore di diventare intolleranti di fronte ad un destino troppo perentorio, per non dire crudele, come dicevo, nella sua ineluttabile destinazione e separazione fra buoni e cattivi. Per trovare un aggancio pratico, ricorro  alla vita scolastica, dove è abitudine  mettere in discussione il giudizio dell’insegnante quando questo porta lo studente alla conclusione del suo percorso, fra promozione o bocciatura. Ebbene lo stesso spirito di tolleranza viene attribuito al giudizio celeste, che non deve dividere, ma unire. Come? Attraverso un nuovo atteggiamento, chiamiamolo pure dottrinale o simil dottrinale, che deve previlegiare il senso compassionevole, che tende sempre alla giustificazione piuttosto che alla condanna. Perfino nei casi estremi, di colpevolezza conclamata che,  in fatto di fede, si chiama peccato grave. Capisco che questo modo di intendere le cose sotto il profilo umano faccia piacere. Rende la vita meno impegnativa e anche meno ancorata alla verità dell’impegno. Eccomi allora arrivato al punto che voglio trattare e che riguarda  appunto la verità. Trattata prima dal punto di vista umano e conseguentemente per quanto concerne la questione fede.  Per l’uomo dunque qualunque teoria sulla verità, deve tenere conto della sua immagine speculare rappresentata dalla menzogna. Nulla di nuovo, perché già gli antichi filosofi greci, specie i sofisti, evidenziavano come  una stessa frase potesse contenere sia la verità che la menzogna. Al punto, per fare un esempio, se si afferma che gli italiani sono bugiardi, si potrebbe sostenere sia il vero che il falso, in quanto se alcuni italiani sono falsi, non tutti lo possono essere.  Da tutto questo si può dire che  la sola logica non può discriminare fra verità e  menzogna, a meno di introdurre un criterio   temporale, quindi relativo e non legato al tempo,    cui subordinare i due principi. Tuttavia, bisogna aggiungere che c’è un secondo fattore  in grado di farci uscire dalla incertezza esistenziale nella ricerca della verità.  Basta infatti accontentarsi di abbandonare la pretesa di poterla cogliere in  modo assoluto, per  trovare una giustificazione sul piano morale. Ed è proprio questa la via con cui possiamo giustificare i nostri errori, senza  pensare o prefiggersi  di giungere o raggiungere la verità assoluta.  In altre parole è il valore morale  con cui dobbiamo e possiamo dire  quello che a noi sembra vero, anche se queste affermazioni poi non resistono nel tempo.  Infatti  è la nostra buona fede  che ci salva dall’errore e senza togliere  all’uomo la sua sete infinita di verità pur sapendo di non  potrà mai conoscerla interamente. Tuttavia va anche detto che la presunta verità a volte può anche far male.  Infatti nel Vangelo di Giovanni, quando Pilato rivolge a Gesù la domanda se  conosce la verità, il governatore romano, se ne va senza aspettare risposta. Preferiva non conoscerla. Questo fatto ci rimanda allora alla dottrina cristiana, dove il concetto di verità diventa un cardine della fede. Infatti solo in quel campo si può trovare la verità assoluta. Ma per arrivare a questo, bisogna esserne convinti e poterla comunicare attraverso il pulpito alla gente, non solo a parole, ma con l’esempio . Non mi pare succeda spesso. L’impressione è che una certa confusione si stia impadronendo perfino nel campo religioso del problema legato al concetto del vero. Un sincretismo  che riguarda la verità, sembra che unisca  oggi  fedi religiose diverse. Cristianesimo e luteranesimo si fondono  ed anche  l’islam  si accomoda nel comune intento di decidere quale sia il vero e quale il falso. Nulla sembra più certo. Perfino alcune religioni primitive ( vedi quella pan amazzonica con l’esempio della Pachamama, la cui statua è stata portata sull’altare, sopra la tomba di Pietro in Vaticano), si assiepano per dimostrare che  se c’è la verità , questa è multipla, divisibile e condivisibile, in quanto rimette tutto in gioco.  Anzi l’impressione è che  sembra abbia perso d’ importanza, sostituita dal nuovo afflato della misericordia che giustifica e tollera ogni distinzione. Al punto che ogni fede  è giustificata e non vale per noi cristiani contrapporre le testimonianze dei padri della Chiesa. Così il credo ut intelligam di Sant’Agostino, secondo il quale la fede stimola l’intelligenza o per converso  che la l’intelligenza rafforzi la fede ( intelligo ut credam), sembrano diventate affermazioni ormai sepolte nel passato di cui quasi si è persa memoria. E lo stesso  capita, per citare un altro padre della Chiesa, un certo San Tommaso D’Aquino, a proposito delle  cinque prove riguardo all’esistenza di Dio. Tota palea ( un mucchio di paglia)  egli diceva a  proposito delle sue due  opere la Summa teologica ed il Compendio di teologia, che  tanto hanno dato  lustro sia alla teologia che alla filosofia. E che appunto  per umiltà di non aver raggiunto, nelle sue dimostrazioni, la pienezza della verità, nemmeno  osò completare. Al punto che oggi sono  sepolte nei polverosi archivi e biblioteche di seminari semideserti. Insomma mi sbaglierò e mi auguro di essere in errore, ma guardandomi indietro, attraverso i decenni. vedo una evoluzione del cristianesimo nell’ottica di un lento abbandono della  verità. Infatti dopo il fervore   della diffusione del messaggio cristiano, finalizzato alla conquista delle genti  con il vigore dei principi dottrinali, attraverso lo spirito missionario ed apologetico che è durato diversi secoli,  riferendoci ai tempi recenti in particolare agli anni 70, un nuovo orientamento ha caratterizzato la Chiesa, anche per mezzo dei preti operai.   Per cui fare testimonianza nel sociale, è diventata  la  nuova ,vera  e prima missione. Ma non è ancora tutto. Dopo il Concilio Vaticano II,  un altro cambiamento è subentrato. Trattasi del dialogo interreligioso, prologo del successivo che dopo pochi anni si  è caratterizzato nella missione del” fare compagnia” verso tutti, persone di fede e non, con l’intento di privilegiare l’aspetto socializzante. Ora si è giunti all’ ultimo stadio , quello dell’ assenza dottrinale.  In questo modo, ritornando al nostro tema,  la verità non è più in grado di dare risposta ai problemi esistenziali che da sempre vanno di pari passo con quelli ultraterreni. A questo punto, per chiudere,  cito il filosofo  parmenideo Severino che, dopo un primo percorso cristiano,  ha concluso da pochi mesi  la sua esistenza, affermando che il cristianesimo  sia ormai in procinto di scomparire nel prossimo futuro. Augurandomi del contrario, sono anche  convinto che una certa parte all’interno della Chiesa ci sta provando.     

Quel che resta del cristianesimo

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