«Subire, subire, subire»
Questa ossessiva ripetizione ha il copyright in quel resistere, ripetuto tre volte, di Francesco Saverio Borrelli, che trova ora una giustificazione negli ultimi casi che mettono in crisi la nostra capacità di sopportazione
Il titolo che nella sua quasi ossessiva ripetizione ha il copyright in quel resistere, ripetuto tre volte, di Francesco Saverio Borrelli, trova una giustificazione negli ultimi casi che mettono in crisi la nostra capacità di sopportazione. Eccone due, presi fior da fiore fra mille altri. Il primo: vietato bocciare, depenalizzato il voto in condotta. Segue a ruota il secondo: uccise un rapinatore, il Pm. lo salva, ma il giudice lo rovina col carcere (2 anni e 8 mesi) e 325 mila euro di risarcimento nei confronti dei famigliari della vittima. Dicevo che si potrebbe continuare, ma bastano e avanzano questi due ultimi esempi ,per capire dove siamo arrivati. Cosa fare allora? Inutile pensare ad un rimedio che per noi italiani, bisogna essere realisti, non esiste. E’ questa una questione costituzionale , che non c’entra con la Costituzione, ma per come siamo fatti noi. Ed uso in proposito una duplicità di parole per non usare il termine razza, che sarebbe ben più esplicativo, se non fosse vietato nell’uso quotidiano ,causa il solito politicamente corretto. Dunque noi italiani siamo fatti così. Parliamo, parliamo, parliamo col dire che così non va, che non se ne può più, che bisogna fare qualcosa, che...che.. che.. e poi tutto finisce lì. Luogo ideale del discorrere (a vuoto) il bar, dove si parla un po’ di tutto ,dalla politica al calcio, per poi mettersi d’accordo su niente e litigare su ogni cosa. Per la verità qualcuno straparla anche di rivoluzione, che ci vorrebbe…che bisognerebbe… che varrebbe la pena e via andare con il condizionale per evocare quel “lui” del ventennio, che - per continuare con la stessa coniugazione verbale - metterebbe le cose a posto. Parole, parole, parole o meglio chiacchiere cui fortunatamente non seguono i fatti.
Meglio così, per carità. Il motivo sta tutto nella condizione tipica (di tipo antropologico?) di noi italiani che per una serie di questioni storiche, legate a secoli di dominazioni straniere e da ultimo alla dittatura del periodo fascista che ha prodotto l’Italia attuale col suo mito resistenziale, non siamo portati a questo tipo di reazione. Insomma per noi la rivoluzione esiste solo a parole. A scendere in piazza anche solo col forcone, per reagire a soprusi, tassazioni esagerate, ingiustizie palesi, non siamo adatti. La cosa, solo a pensarla, ci fa soffrire di orticaria allergica. Lo disse, a questo proposito, un certo Flaiano, scrittore, umorista, sceneggiatore e giornalista col suo aforisma rimasto celebre: noi italiani non siamo fatti per la rivoluzione perché ci conosciamo un po’ tutti. Dunque noi italiani, a differenza dei francesi disposti , quando è il caso, a passare dal bar alla piazza, il ché significa dalle parole ai fatti (la Bastiglia insegna), preferiamo seguire una strategia diversa. Ammorbidire, alleggerire il significato delle parole e quando queste sembrano troppo accese, addomesticarle per vivere in tranquillità. E soprattutto per toglierci di dosso il fastidio di pensare che ci sia ancora qualcuno disposto a credere, ad obbedire ed infine, ma questo riguarda la sola categoria degli illusi o fanatici, a combattere. Recentemente la parola rivoluzione, intesa nell’unico modo possibile, quello metaforico, è stata soppiantata dall’attuale Presidente del consiglio con il termine rottamazione. Che per quanto ambiguo, evocando più un fatto di macchine che di uomini, ha suscitato un certo interesse nell’ambito sociale.
Da parte insomma del popolo, affetto da cronico malessere anoressico, causa una persistente indigestione ad ascoltare le solite parole dei politici. Che quando anche cariche di buona volontà decisionale, vengono poi sempre smentite dai fatti. Trattasi della cara e vecchia abitudine del dimenticare il già detto, quando questo minaccia la poltrona per dedicarsi invece a più convenienti pratiche centrate su accordi (spesso sottobanco), compromessi e mediazioni varie, onde mantenere comodo il cosiddetto lato B del corpo. Dicevo allora che la parola rottamazione ha suscitato in molti (soprattutto per i creduli, ci sono sempre) motivo di speranza per dare un po’ di tregua al mal di stomaco, affetto da rifiuto del cibo causa il dover ingurgitare da troppo tempo, le solite, nauseanti ricette da parte delle solite facce. Sembrava possibile infatti, agli occhi di questi sudditi (lo siamo un po’ tutti), che qualcosa di vagamente rivoluzionario, considerate le nostre attitudini, potesse succedere. Senza ricorrere ad atti di piazza che come detto, suscitano sempre in un popolo pantofolaio, come il nostro, dedito alla contemplazione serale dell’ indispensabile elettrodomestico di casa, un certo fastidio. Perché, inutile girarci attorno, la nostra indole non si è ancora completamente affrancata dal modello, casa, chiesa e scuola. Nonostante la chiesa sia sempre meno seguita , la scuola frequentata quel tanto che basta, senza troppi obblighi compreso l’abolizione del voto in condotta ,cui si faceva riferimento ad inizio articolo. E la casa invece bazzicata da gente , diciamo così, formatasi sulle nuove abitudini, trasformatasi in un porto di mare. Dove le convivenze hanno ormai soppiantato i vecchi matrimoni, diventati logori e le coppie fra omo, trans, ed etero, con questi ultimi statisticamente in caduta libera, dimostrano che esiste una moneta di nuovo conio , cui spendere sul mercato degli usi e costumi. Già, sembrava che la rottamazione, un modo questo tutto casereccio, di mandare a casa i vecchi politici, alimentasse qualche speranza, anche presso gli inguaribili sostenitori del metodo galileano in politica, dell’eppur si muove. Ma passano i giorni e nessuno vede l’auspicata rottamazione. Si notano, è vero dei giovani, che raggiungono le prime linee, ma i vecchi restano e resistono ben riparati nelle seconde (linee) perché trattasi pur sempre di un fronte. In cui pugnalate alla schiena e tradimenti vari si susseguono come le crisi che noi preferiamo definire , in ossequio al fatto di conoscerci un po’ tutti, rimpasti. Termine che fa pensare ad un impasto alimentare, i cui ingredienti si mescolano, ma il risultato non cambia.
Ciò per quanto riguarda la insaziata fame di potere dei cosiddetti impastatori. O mestatori. Cosicché con l’ultimo di questi impasti o rimpasti, siamo ritornati ai tempi del manuale Cencelli. Politico questo in forza alla Democrazia Cristiana, (siamo agli inizi degli anni 50) di nome Massimiliano, passato alla storia in quanto specializzato a distribuire ruoli e cariche governative ai vari esponenti di partito, utilizzando un bilancino per misurare al grammo il peso elettorale di ognuno. Ecco allora come con la sedicente rottamazione siamo tornati alla prima repubblica. Attraverso il solito vizio da parte di politici di cambiare carro e casacca, pur di continuare a pesare sulla mitica bilancia. E se cambiando così pelle, diventano traditori per i vecchi sodali, oppure stimati pentiti da parte dei nuovi padroni, chi se ne importa. Vabbè niente di nuovo se, contrariamente a quanto fin qui detto, non fosse maturato il tempo di una rivoluzione in atto. L’unica possibile dalle nostre latitudini. Quella che si presenta come normalità, che si produce in modo silente, che si riveste di ogni caratura istituzionale giuridica e politica per proporsi come democratica, quando invece rivela la sua vera natura di congiura di palazzo. Il tutto comincia con governo Berlusconi ormai in declino causa i soliti doppiogiochisti fra cui spicca il caso Fini. Quello implicato per via della casa di Montecarlo di proprietà del cognato, per intenderci. Il nuovo Catone, quello della Cartagine che deve essere distrutta, diventa il tramante Presidente Napolitano con il concorso della Giustizia. Rimuovere Berlusconi il primo obiettivo, e per giustificare la manovra, si specula sull’impazzimento (pilotato) dello spread. Il secondo (obiettivo) è individuare un salvatore, va da sé, della patria.
Monti, appena nominato senatore a vita onde potere ottenere il pass richiesto, viene scelto come la persona giusta. Se poi si rivelerà non solo sbagliata, ma catastrofica, inutile cercare la responsabilità. Caduto lui assieme alla sua ministra Fornero, la cui riforma pensionistica brucia ancora sulla pelle degli esodati e non solo, subentra il mite Letta. Il quale sembra agitarsi proprio quando qualcuno gli ricorda di stare sereno. Infatti il colpo basso a questa sua condizione piscologica di sospetto, arriva puntuale proprio da parte di chi gli raccomandava salute prosperità e lunga vita politica. Serenità appunto. Il congiurato non è Bruto, né Cassio, ma Renzi, che diventa così il nuovo Cesare. Trattasi dell’’ex sindaco di Firenze con un passato da boy scout, bullo quanto basta e campione di parole, fra cui spicca rottamazione. Per di più, giovane, di bell’aspetto e senza l’aplomb del vecchio politico trombone. Chi l’ha eletto? Nessuno. Chi l’ha voluto? Il solito Napolitano in via di abbandono dalla carica di Presidente della Repubblica. Chi lo sostiene politicamente? All’inizio un po’ tutti, compreso lo stesso Berlusconi, poi estromesso dal parlamento tramite una sentenza , la legge Severino, applicata retroattivamente che lo rende di fatto una comparsa nel panorama politico. Si opta infatti (parlo del braccio giudiziario) di trasferirlo dal Parlamento ai servizi sociali per la durata di circa un anno. E il popolo? E chi è quel tale che si ostina a chiederselo? Ormai il piatto è pronto. E gli italiani abituati al desco e a mangiare tutto quel che trovano sul piatto, si accomodano. Sereni. Anche questa del mangiare, in tempo di crisi, è pur sempre una rivoluzione. All’italiana.