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Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Una dedica per il professor Luigi Paraboschi

Era una persona a modo. Schivo quel tanto che basta per non essere considerato un solitario e nello stesso tempo aperto al contatto con la gente senza per questo essere considerato un compagnon. Anche quando lo avrebbe potuto essere, non si considerava mai un protagonista, come ben sa chi insegnando, impara. Infatti l’insegnamento era la sua missione...

Luigi Paraboschi era una persona a modo. Schivo quel tanto che basta per non essere considerato un solitario e nello stesso tempo aperto al contatto con la gente senza per questo essere considerato un compagnone. Anche quando lo avrebbe potuto essere, non si considerava mai un protagonista, come ben sa chi insegnando, impara. Infatti l’insegnamento era la sua missione, ma come tutti i veri insegnanti  non si metteva mai in cattedra. Per lui la cattedra vera, era la vita dove  l’affettazione e formalismi vari, subiscono a lungo andare l’umiliazione nei confronti dei fatti. Dell’insegnamento la sua passione era il dialetto piacentino, che diffondeva in ogni occasione, in libri, pubblicazioni varie, e corsi di formazione del vernacolo, tenuti alla Famiglia Piasinteina per continuare la tradizione  dei Tammi, Bearesi Cremona, per citare alcuni dei suoi maestri. Il dialetto, dicevamo, per lui rappresentava quasi una droga, da assumere però con giudizio, senza sballi violenti.

Lo voleva infatti assimilare lentamente in tutte le sue sfumature e non si sentiva mai contento  di  tutto quello (ed era molto) che  ormai costituiva la sua autentica molla di vita. Consultare e sviluppare antiche pubblicazioni e dizionari e poi rielaborare il significato dei lemmi alla luce delle nuove esigenze moderne, rappresentava il suo vero obiettivo che si manifestava con  lo  scrupolo dell’uomo perennemente in ricerca. Mai saturo di quanto già sapeva, ambiva ad aggiornare vecchi modi di dire, ormai in disuso, cercando di farli conoscere e diffonderne l’uso. Consapevole che la vecchia tradizione popolare trovava nel dialetto la sua prima espressione per comunicare, per lui, il suo assillo, era che dimenticata questa, voleva dire dimenticare quella. Il ché, sta a significare, l’identità piacentina.

Un unicum differente da qualsiasi altra cultura, causa le condizioni del vivere che  come sappiamo risentono di tanti fattori,storici, educativi, economici, culturali. Da qui, l'importanza del dialetto per continuare ad essere quello che un tempo erano stati i nostri antenati. Questa convinzione per Paraboschi era una forma di fede. E cercava in ogni modo di difenderla. Si potrebbe pensare che una esigenza psicologica fosse alla base di questa sua passione. L’attaccamento alla famiglia e la nostalgia di un mondo in via di rapida trasformazione, potrebbero essere una possibile spiegazione. Ma difficile dirlo con sicurezza. Il campo psicologico è infatti spesso minato da troppe teorie e spiegazioni, ognuna valida fin tanto che ne compare una nuova che supera le precedenti,per sostituirle in attesa di ulteriori elucubrazioni. Spesso fantasie.  Certamente conoscendolo, l’impressione di una vena nostalgica traspariva. I suoi modi sempre discreti e rispettosi, dimostravano una natura costretta a guardare avanti, ma col gusto di voltarsi indietro. Per esprimere una volontà di non volere dimenticare, onde trovare conforto nel  passato. Nel tempo in cui maturano le prime avvisaglie della personalità, attraverso i  precoci contatti con la realtà,attraverso l’interscambio fra  casa, scuola, chiesa e strada. La vita dura e semplice dell’infanzia lasciano per tutti un ricordo, sempre venato di malinconia per le cose che furono, specie in un animo sensibile come quello del nostro uomo. Dove (parlo dell’infanzia) piaceri e dispiaceri non sempre si ripartiscono in modo uguale. Bisognava però superare la lacrima e trasformarla in dignità culturale e di comportamento.

Non solo ricordo nostalgico quindi chiuso  in se stesso. ma perpetuazione di questo sentimento in un futuro aperto, ricco di vecchi interessi e di nuovi stimoli. Il linguaggio rappresentava per lui, il mezzo più adatto per questa operazione di tipo psicologico, divenuta col tempo sempre più intrisa di cultura. La parola infatti che cambia di pronuncia e significato col tempo, porta con sé, la traccia indelebile di quello che è stata. Scoprire questa traccia e difenderla nei confronti della modernità, è stata per Paraboschi l’obiettivo primario,  che ho definito, anche se con un po’ di enfasi, una forma di fede. Lo si capiva dal suo modo di fare. Prima di tutto dal tono del discorso, piano, lineare, logico, tenuto insieme da fili invisibili di ancoraggi fra presente e passato, tipici di chi  più che insegnare, vuole coinvolgere gli ascoltatori. Per lui veri compagni di viaggio coi quali  passeggiando idealmente per la città, condividere le antiche risonanze storiche. Emergenti da strade, piazze, mercati, ben espresse dalle, non ancora sopite, inflessioni di un linguaggio che specie nelle persone anziane, mantiene inalterata l’antica forza musicale. Greve, aspra e pur cosi aderente alle cose e ai sentimenti. Lo si capiva inoltre dai gesti. Prudenti, educati, rispettosi proprio di chi non invade mai il campo prossemico degli altri. Infine dal sorriso che spesso e volentieri distribuiva fra le pieghe del discorso, come un simpatico vezzo per  stemperare le tensioni e nello stesso tempo diffondere un messaggio amichevole. Quasi fraterno, nei confronti di chi  è cresciuto, bevendo la stessa acqua e a mangiando lo stesso pane che  è l’ amore per la città.

Per quanto consapevole di un destino avverso, sto parlando del dialetto, perché sempre più dimenticato dalle giovani generazioni, mai ombra di delusione o di  rimprovero si poteva scorgere dalle sue parole. Anzi. Una volontà di andare controcorrente, senza peraltro la pretesa  di volerlo fare, lo prendeva. Il conforto  era costituito dalle numerose rubriche che da varie parti gli venivano offerte per illustrare, spiegare, precisare, il perché dell’antica parlata. Possibilità questa da lui utilizzata a piene mani  per studiare le ragioni del nostro modo di esprimersi. Che, come sappiamo, varia non solo da contrada a contrada, ma ancor più nei confronti della gente a noi vicina. Con  Province quindi a noi limitrofe, con cui anche per questioni di commercio e di storia, abbiamo dato e preso usi, costumi e modi. E poi più in generale con la tradizione italiana. Con una nazione, la nostra, faticosamente fatta per merito e nello stesso tempo demerito dei tanti linguaggi locali, i dialetti, oggi quasi completamente assorbiti dalla lingua nazionale. Ecco allora il punto che ci riguarda. Da popolare il nostro dialetto è diventata una lingua elitaria. Abbandonato il popolo, si è insediato nella gente di  censo e di cultura. Che usa il dialetto più che per convinzione, spesso per snob. Per dimostrare quanto sia bello per un uomo ricco far professione di povero. E per un uomo di una cultura appiccicata assumere le false vesti di un uomo semplice e modesto. Anche questa è vanità. Ritornando a noi , dobbiamo ammettere che  il nostro modo di vivere, non più legato al luogo di nascita, ha modificato il linguaggio. L’italiano ha sconfitto i dialetti con l’eccezione di quelli più diffusi tipo il veneto, il napoletano, il romanesco e il milanese.

Ma anche questi subiscono i condizionamenti del tempo. Al punto che lo stesso italiano, come lingua, stenta a difendersi nei confronti del linguaggio universale:l’inglese. Una nuova umanità sempre più tecnologica si affaccia e si diffonde fra le nuove cosiddette conquiste della modernità. Chi ne subisce i contraccolpi peggiori, sono i vari dialetti che viceversa affondano le loro radici in usi e costumi locali in fase di annientamento. Paraboschi ne era consapevole, ma poiché alla fede non si comanda ed il cuore ha altre ragioni che sfuggono alla  stessa ragione, é appunto col cuore che il nostro uomo ha fino all’ultimo difeso il suo credo. Lo dimostra la sua ultima pubblicazione: il Prontuario  Ortografico Piacentino col sottotitolo: "par leśś e scriv bein al piasintein". Una pubblicazione mossa dal desiderio di semplificare il più possibile le regole, assai complicate, per scrivere il nostro dialetto, che da lingua parlata, ha sempre avuto difficoltà a passare in scrittura. E così reagire alla omogeneizzazione del linguaggio.  

E’ stato questo un tentativo estremo per continuare a definirci piacentini di nome, di fatto, di parlata e di scrittura. Estremo per la salvaguardia del nostro dialetto, ma purtroppo anche per Luigi Paraboschi che con la stesa discrezione che l’ha accompagnato in vita, ha affrontato con un silenzio eloquente e nello stesso tempo sconsolante per tutti, il suo ultimo atto. Quale il messaggio che ci lascia? La dedizione alla sua terra, senza ricorrere ai toni enfatici, da battaglia, ma convincendo con il sussurro e attraverso toni moderati ed educati, sia nella parola che negli scritti. Strano destino il suo. Se ne è andato combattendo l’ultima battaglia, quella non solo di  insegnare a parlare, ma  di scrivere in modo corretto il nostro dialetto. Per tramandare anche su carta quella  che costituisce nel bene e nel male  la nostra identità. Espressione questa di amore che lui ci ha insegnato ad avere verso  la madre terra piacentina, che ci fa nascere, crescere e poi anche morire.

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