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Venerdì, 19 Aprile 2024
Effetto Vertigo

Effetto Vertigo

A cura di Diego Monfredini

Il quinto potere e l’ombra di Assange

Datemi una maschera e vi dirò la verità

Julian Assange, creatore di Wikileaks, vive da un anno e mezzo qui sopra, l’ambasciata di Ecuador a Londra che gli ha concesso asilo politico. Quella de “il quinto potere” non racconta il suo punto di vista sui fatti ma piuttosto la parabola dell’ascesa e caduta dello strettissimo legame con l’ex collaboratore Daniel Domscheit-Berg. La sceneggiatura si fonda infatti sulla versione del tedesco sospeso dallo stesso Assange nel 2010 per profonde divergenze sull'utilizzo della piattaforma digitale, una storia raccontata in “Inside Wikileaks”.  L'altro testo di riferimento è Wikileaks di David Leigh e Luke Harding, due giornalisti del Guardian, il quotidiano britannico che pubblicò in accordo con Assange centinaia di “leaks” riferenti a segreti di Stato americani, in modo particolare di valore militare sulle ultime guerre. 

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Il film di Bill Condon, al quale ahimé tocca svegliarsi tutte le mattine maledicendo il proprio cognome e rimpiangendo di aver girato la saga di Twilight, è invece tutt’altro che scontato: bipartisan sì, ma estremamente raffinato nella misura in cui scatena una serie di riflessioni alla base del concetto di informazione, di diritto e libertà, ma anche di confine e di limite, dell’informazione.

Curiosa l’analogìa tra il personaggio interpretato da Daniel Brühl e la recente apparizione in Rush, ancora protagonista nelle vesti di Niki Lauda. Entrambi “nerd” metodici e pignoli cultori del sudore e del rigore, compiono nell’arco delle vicende rappresentate un atto di eroismo al contrario, il paradosso della rinuncia, della resa barattata con qualcosa che vale di più: ed è sempre un fattore umano, perché se in Rush l’abbandono al rischio della vita per correre corrisponde all’amore per la moglie, nel Quinto Potere quel valore è inteso nell’incolumità delle cosiddette “gole profonde”, le talpe, come vengono definiti nel film gli informatori e le fonti. 

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Qui si snoda il problema centrale del discorso di Condon. Dove ci si può spingere a dare voce alla verità? Come “revisionare” le fonti? Come proteggerle in caso di verificata idoneità? Che ritratto esce di Assange?  Di certo ne risulta esaltato il suo lato idealista, l’ardore per la causa. Il personaggio interpretato dal superbo attore inglese Benedict Cumberbatch non vive che per soddisfare la sua vocazione di amplificare la voce degli ultimi, in ogni parte del mondo. Non ha una casa, non vede il figlio da un anno, gira con un laptop e lo stesso paio di calzini bianchi.

Forse con un eccesso di retorica si enfatizza la sua travagliata infanzia al fianco della madre all'interno del culto australiano "The Family” in cui subì percosse e obbligo di assumere psicofarmaci. I suoi modi intransigenti non curanti delle conseguenze e la sua associalità  completano il quadro di una persona sola al comando, un folle profeta solitario, che durante la parabola scenica delle due ore perde progressivamente il controllo sulla sua organizzazione anarchica e soprattutto su se stesso.

Assange dalla sua nuova tana londinese fa sapere di non aver gradito il suo ritratto come ambiguo bugiardo. Ha disconosciuto l’ex socio imputandolo di schizofrenia e alto tradimento. Ma ancora si parla di lui, dell’uomo che in qualche mese ha causato in pratica il bug di informazioni riservate più ampio che la storia ricordi. Il dio degli hackers.

Sono appena uscito dalla sala, e ho sentito l’urgenza di raccontare questo film. Questa è la qualità che gli riconosco. La spinta. Questa storia ti spinge a cercare, a cercare la tua verità, perché il quinto potere siamo noi nella misura in cui ci rimbocchiamo le maniche e apriamo quei cassetti in cui di solito ci troviamo calze e mutande già piegate prima da qualcun altro per noi, qualcuno che crediamo ci voglia sempre e comunque bene.

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