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Vagabondi in Appennino

Vagabondi in Appennino

A cura di Pietro Nigelli

Una gita d’altri tempi

Dai vissuti dell’“Old Timer” Pietro Nigelli - Trekking-way Engineering

Non è stata, e non voleva essere, la solita gita di classe. Quella, tanto per capirci, dalla meta esotica (Parigi, Vienna, Monaco…) o dei soliti ed un po’ scontati contenuti culturali (Firenze, Torino, Roma…). L’idea era di realizzare una uscita insolita, inusuale, un qualche cosa da creare e vivere tutti insieme attimo dopo attimo, alunne ed accompagnatori e… ecco questo soggiorno verde di tre giorni in quel di Coli, comune montano dell’Appennino nostrano adagiato sulle balze erbose della val Curiasca di San Michele a 650 metri d’altitudine.

Tra le 19 indiavolate ragazze accompagnate dagli insegnati si è inserita la presenza dello scrivente, Accompagnatore di Montagna, e del suo “Lupus italicus” Whisky. A noi spettava il gravoso compito di avvicinare la scolaresca all’incredibile, affascinante, sorprendente mondo delle Terre Alte piacentine. Per creare, da subito, un contatto più intimo e reale con il territorio e la gente il viaggio inizia da Piacenza non con autobus riservati ma con mezzi di linea. 

Mentre percorriamo la Statale 45 impariamo a conoscerci, io e le ragazze. Prime domande, timide, sottolineate dal “Lei” o da “Professore” e risposte veloci veloci in fil di voce. Poi, poco a poco, siamo scivolati nel Tu, nel cameratismo ed io mi sono sentito giovane tra i giovani.

Via quello sciocco “Lei qui, Lei là, chiamatemi Pietro suvvia!”. Il gruppo è diventato vivo, compatto.

I discorsi s’intrecciano, s’accavallano; domande su domande - Dove siamo? - A Casino Agnelli -… - E quel monte laggiù come si chiama? - Pietra Parcellara -… - Pietro questo è Perino, ci vengo d’estate, c’è una focaccia buonissima - Ville, borghi, casolari sfilano fuori dal finestrino bagnato dalla pioggia… la mia valle ci accoglie triste e nebbiosa ma è ugualmente bella.

Negli attimi di calma fisso le ragazze che ascoltano con religiosa attenzione le canzoni più in voga. Mi rivedo quand’ero come loro, sedicenne, spensierato, libero… Rivivo il mondo delle “storie” di mio zio Ennio, partigiano su questi monti; era giovane anche lui, allora, ma le sue canzoni le suonavano il “tapum” e le raffiche di mitraglia. Queste ragazze non sanno, io stesso non so, come doveva essere triste per i giovani d’allora la loro gioventù. Bobbio, Montecassino dell’Alta Italia, città d’arte e di turismo, ci appare all’improvviso con il Ponte Vecchio, la Cattedrale, le case dai tetti rossi.

Si scende per cambiare corriera…. Piove!

Nell’attesa girovaghiamo tra monumenti ed angoli umili e reconditi; raramente il Medioevo e l’Ottocento sono fusi come in Bobbio e nel visitarlo avvertiamo l’esatta sensazione di un’altra età.

La città, accucciata nell’incavo dei monti, con i suoi millenni di storia sulle spalle e le sue curiose peculiarità, ci accoglie con il giardino e la piazza San Francesco, le viuzze, le vecchie chiese, il castello, i portici, il ponte…. Alle 13 saliamo sulla corriera per Coli. E’ di quelle vecchie, piccola, con i sedili stretti stretti. Si sale lentamente.

Il motore tira nei tornanti; ogni curva è annunciata dal “poti-poti” che si spande nella valle come un onda. Bobbio rimpiccolisce, l’orizzonte s’allarga: il Trebbia, le nubi a cappuccio sul Penice… le note ossessive della musica, i canti delle ragazze…. Di nuovo scivolo nei nostalgici ricordi del passato.

Mi rivedo bambino, sui torpedoni del dopo guerra, quelli con il muso schiacciato e la cupola del motore di fianco all’autista, odorosi di nafta ed olio. Restavo incollato ai vetri, in ginocchio sul sedile o tra le braccia di mio padre, per vedere sfilare i monti, le guglie di pietra scura od i cupoloni di velluto verde; così misteriosi, così lontani….Un tocco, lieve, mi riporta, di tanto in tanto, dal sogno alla realtà.

Chi è? Katia, Roberta, Daniela… ognuna di loro ha una domanda sulle labbra ma quello che più colpisce è lo stupore. Traspare dai loro occhi, questo stupore di cose mai viste, di un mondo leggendario, alieno, nuovo al quale si avvicineranno nei prossimi giorni. Il desiderio di contatto con la valle, ricca di storia sacra e profana, di realtà e leggenda è incontenibile.

Nonostante la nebbia, verso le 16 partiamo per una escursione al Palazzo di Faraneto. Le testimonianze storiche sono evidenti nei casolari in sasso di Braschi e Magrini dominati, questi ultimi, dai pochi ruderi del castello, nei ponticelli in pietra che superano il Curiasca di Coli, nei cariati fregi del Palazzo. Boschi di castagni secolari, povere costruzioni - i metati - sparse nel loro folto, utilizzate dai montanari di un tempo per la raccolta e l’essiccazione delle castagne, fiori protetti ed animali selvatici richiamano l’attenzione con suoni, immagini ed odori inusitati, insoliti, eccitanti.

Le piante, contorte, ancora spoglie, sono immerse in una nebbiolina fine fine che sale in lente volute dal fondovalle. A tratti la luce di un caldo colore giallo oro illumina il bosco creando un caleidoscopio di colore. Sembra di essere in un libro di fiabe ma… forse l’Appennino è una fiaba.

Al Palazzo di Faraneto arriviamo che è sera; una sera dolce, malinconica; la nebbia è sotto di noi, fuma tra boschi e monti di rame, scivola fra tronco e tronco, silenziosa. I contorni sono sfuocati; ecco, uno sbuffo s’innalza e, colpito dal sole, brilla e s’agita come ameba fremente. E con lui brilla l’austero Palazzo dominatore incontrastato della valle. Ci avviciniamo, timorosi.

All’imbrunire la fantasia corre… sembra di udire, nel rumore del vento serotino, le voci degli antichi abitanti, i suoni di un tempo quando i fanciulli giocavano in questo sito, il camino fumava e gli animali riempivano l’aere con i loro “romori”. Oggi tutto tace; è come se il tempo e lo spazio si fossero fermati in un attimo eterno….

In noi “visitatori” nasce il timore di rompere l’incanto e, come siamo venuti, ci allontaniamo, piano, voltandoci più e più volte per capire se il sogno è realtà o la realtà sogno. Rientriamo che è ormai buio, infreddoliti, affamati, stanchi ma, nello stesso tempo, insonni; intorno al desco ognuno ha un particolare da raccontare, una domanda da esprimere. E’ bello tutto questo. E quanti progetti per il domani.

Domani che è già oggi e ci vede camminare ancora tra le nebbie ed i vapori su su verso i m.ti Tre Abati e Sant’Agostino, prime monolitiche e corrusche presenze del “regno dei giganti dai piedi d’argilla”. Il sentiero sale, prima tra pini, abeti e larici, ampio e ben visibile, poi s’inerpica sulla sottile creta rocciosa del Sant’Agostino, appena accennato, tra dirupi e vallecole, ora protetto da bastionate d’igneo serpentino, ora sospeso tra terra e cielo.

A tratti il velo si squarcia ed il cuore ha un tuffo. Sotto di noi un’immensa distesa di ghiaioni, pietraie, pinete. Una mescolanza di colori: il perso, il nero, l’olivastro delle pietre s’alterna, senza soluzione di continuità, ai verdi ora cupi ora tenui delle resinose. Le ragazze, in fila indiana, avanzano con cautela guidate dalle mie istruzioni.

- Un piede qui. -… - Uno là -… - Attaccati a quell’appiglio! - … - No, non così; più sciolta! -… - Non c’è bisogno d’avere paura; guarda si fa così -.

E nasce in loro, tra il sudore, la fatica ed il timore, quel legame indissolubile d’amicizia che solo la montagna sa dare. Ma… Suor Rosina dov’è? La cerco, unica gonna tra tanti pantaloni. Dov’è sta santa donna!??
Eccola!

Tra la nebbia, in alto, sopra di noi, un ondeggiar di vestimenti blu scuro. La nostra suora “volante”, zitta zitta ci ha superati e sola soletta è salita alla cima. Chissà, forse anche per Lei questo vivo contatto con le forze della Natura ha lo stesso significato che ha per me: sentire la presenza di un Dio, cristiano per lei, per me forse un po’ più panteista ma pur sempre un Dio, un Essere che accomuna tutto e tutti, terra, uomini, piante ed animali.

Un insieme che spesso e volentieri noi esseri umani violentiamo per un insano piacere di autodistruzione.
Chissà….
La chiamo… e lei sorride, nel vento.
La stimo.

Mi sento attratto dalla forza che emana questa suora; così fragile, così schiva con una capacità di donare, di dare senza chiedere, di guidare con dolcezza… sì, decisamente, la stimo. Anche le ragazze si sentono spronate dalla presenza ed in breve eccoci tutti sulla cima, ansanti nella gelida sferza del vento. L’appetito, ormai divenuto fame, si fa sentire con sordi brontolii e trovata una radura protetta diamo l’assalto ai panini con coppa e salame.

Vicino c’é una sorgente dove, a turno, ci rechiamo a prendere l’acqua. E’ divertente vedere come la civiltà ci condiziona; le ragazze hanno il terrore che l’acqua sia sporca: ci sono le foglie, la terra, gli animaletti…; non si rendono conto che quest’acqua sorgiva è pura, cristallina anche se non sgorga da un rubinetto. Mah, che strana civiltà questa nostra.

Il freddo umido s’insinua sotto le giacche a vento ed i maglioni; in effetti, fa freddo, si vede il fiato. Niente di meglio che un buon fuoco per rallegrare gli animi!

Prepariamo un focolare con pietre e sassi; poi carta, erba secca, felci, legnetti e… via la fiamma si alza calda e scoppiettante. Seduti in cerchio osserviamo rapiti la danza del fuco ora viva e saltellante ora smorzata, lenta, fumosa. Un guizzo e di nuovo balza verso il cielo, sembra un essere vivo che respira, parla, cresce e muore.

L’allegria si spande, canti, lazzi, scherzi e giochi… facciamo asciugare le scarpe umide - c’è che riesce a far bruciare le stringhe!  Cose da matti!

Il tempo vola veloce e la sera arriva fin troppo presto… è il triste momento del ritorno; la civiltà tira il guinzaglio che mai  come ora appare corto e soffocante.
Domenica, ultimo giorno del nostro soggiorno, andiamo a visitare la valle del Curiasca di San Michele e la grotta di San Colombano.

Finalmente c’è il sole, l’aria frizzante lentamente si scalda… via maglioni, golfini, pantaloni pesanti… il corpo desidera il caldo abbraccio dell’astro, della sua dorata luce vivificante.
Con noi ci sono, oggi, alcuni ragazzi di Piacenza e Fiorenzuola sull’Arda; amici che ci hanno raggiunto per trascorrere insieme l’ultimo di tre giorni vissuti fuori dal “guscio civile”. Dal borgo di Coli scendiamo sul fondo del Curiasca per superarlo utilizzando un ponte di pietra.

Tra il folto della vegetazione si scorgono i resti di antichi mulini e della condotta forzata per l’acqua, tutta scavata nella viva roccia. Con rapidi zig-zag si sale nel bosco ed in breve eccoci immersi nella storia, nella leggenda. Pochi sono i montanari della valle che sanno ancora indicare il luogo ove San Colombano si recava per  40 giorni all’anno in ritiro.

Il “rifugio”, un abbozzo di spelonca in parte naturale, in parte scavata dal Santo stesso, è raggiungibile con un sentierino a precipizio sul torrente e rappresenta una vera avventura per chiunque. La bellezza dei luoghi ripaga ampiamente la fatica. Percorriamo con reverenza il tragitto, immerso in un bosco di querce e castagni, con stupendi scorci sulle possenti balze del m.te Selva che rendono impraticabile il versante destro della valle.

Alla grotta sostiamo, in silenzio, per alcuni minuti; unici rumori lo stormire del vento, il rumoreggiare del Curiasca e, ora vicini, ora lontani, i canti degli uccelli.
Difficile rompere l’incanto ma… l’ora è tarda.

Rientriamo passando vicino a Telecchio; il cielo s’imbroncia; un tuono, due lacrime e… poi lo scroscio.
E’ destino che dovesse finire così com’era iniziata: nell’acqua!
E sì, è proprio finita; peccato!
Sul torpedone che ci riporta alla città, in un sonnolento ritorno, passano negli occhi, come fuori passano i paesi, le case, i borghi e le valli, flash di ricordi.

Esperienze vissute si mescolano alle “fole” dell’Appennino dando vita ad una realtà-sogno che resterà per sempre lì, nel profondo di ognuno di noi, legandoci  con un filo invisibile ma tenace che solo la montagna sa tessere, intrecciare e poi dipanare. E’ come una voce che chiama e… difficile è resisterle!

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