Considerazioni sul film "America Latina" dei fratelli D’Innocenzo
Perché si va ancora al cinema? Una volta si andava al cinema, perché era il solo modo per vedere un film di recente programmazione, in televisione i film andavano in onda dopo anni e anni. Adesso con un abbonamento, il cosiddetto video on demand, un film lo si può vedere comodamente a casa quando si vuole perché praticamente si ha sempre a disposizione una cineteca completa.
Allora si rende necessario spiegare il senso della domanda precedente: perché si va ancora al cinema? Perché il film è tale solo se proiettato in una sala cinematografica. Il cinema nasce in questo modo. Già i fratelli Lumière danno la loro prima proiezione davanti ad un pubblico pagante riunito in una sala.
Il cinema è un rito, è la magia che sa dare solo la ripetizione di azioni conseguenti. Sarà per questo che mi son perso tanti film che, causa pandemia, hanno seguito la via della proiezione televisiva (VoD). Tra questi il film Favolacce, di cui molto ho letto e di cui molto si è detto, del 2020 dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo. Oggi finalmente comodamente seduto in una sala cinematografica posso invece vedere il loro ultimo lavoro: America Latina. Così di primo acchito il titolo sembra suggerire un argomento che riguarda l’America del Sud. Poi ci si accorge che Latina è maiuscolo quindi non è un aggettivo ma riguarda la denominazione di una città laziale: Latina appunto. Un’accoppiata che disorienta: un continente ed una città di provincia italiana. Disorienta il titolo, disorienterà il film. Una repulsione istintiva prende allo stomaco lo spettatore quando vede una ragazzina legata e imbavagliata in uno squallido scantinato, compare a noi, come sembra, per la prima volta, compaia al dott. Massimo Sisti (Elio Germano), proprietario della villa. Lo scantinato di una grande villa di tre piani che si erge nella desolata e fredda campagna circostante, la campagna di Latina, ma potrebbe essere l’anonima periferia di qualsiasi italiana. Sono così simili le periferie di tutte le nostre città, anonime e fredde, come di contro così interessanti ed accoglienti, i relativi centri storici!
E l’America? Cosa c’entra? Forse perché la pazzia e la connessa violenza sono prodotti tipicamente d’oltreoceano? O perché la ragazzina è stata rapita proprio in un paese dell’America latina, dove frequenti sono i fenomeni criminali legati al mondo dell’infanzia? O perché certi comportamenti possono essere solo frutto di una società consumista e per antonomasia made in USA? O perché…. E così potremmo continuare all’infinito senza poter ricevere comunque una risposta adeguata.
Dopo le prime inquadrature ci si aspetta una critica alla famiglia borghese, la tipica famiglia rappresentata da un facoltoso professionista, da una moglie, possibilmente casalinga e servizievole, e da due figlie così belle ed eteree da essere la fotocopia della madre, sono perfino vestite allo stesso modo: un bianco che a noi padani ricorda tanto la bianca e soffice nebbia di certe mattutine albe invernali.
Siamo come sospesi in una tragedia greca, dove tutta la vicenda avviene in una unità di luogo: la villa. Le azioni che si svolgono al di fuori di essa, servono a sottolineare la solitudine esistenziale del dottor Sisti e della sua famiglia. Sarà, poi, una vera famiglia? O sarà la proiezione di un mondo fantastico dovuto alla schizofrenia del professionista? Professionista che arriva a dubitare di tutto, anche degli amici, o meglio dell’unico amico, amico da bar con cui bere la solita birra il sabato sera. Non ha nessun dubbio sul padre. Un padre con cui non c’è stata mai una vera e propria relazione affettiva. Il padre non lo ha mai considerato un vero uomo, non lo ha mai desiderato ed accettato come figlio. Il figlio, a sua volta, basa il suo rapporto con il padre sul denaro: gli lascia, ad ogni sua visita, una mancia, come a saldare un debito a rate.
Alcuni film si dimenticano subito dopo essere usciti dalla sala, altri si dimenticano mentre si assiste alla stessa proiezione: un fotogramma ne cancella il precedente, del film non ne rimane memoria alcuna.
Altri film non si dimenticano facilmente. Si esce dal cinema e si continua a pensare alla storia, ai personaggi, ai significati più o meno reconditi del film. Ci si arrovella perfino, perché non si capisce una certa scena, un’inquadratura, o perché la storia finisca in un determinato modo anziché in un altro.
Ebbene, credo che il merito di un film come America Latina, consista proprio in questo. Nel farci riflettere. Dall’inizio turbandoci con la visione inquietante di una ragazzina, legata ed imbavagliata, tenuta prigioniera in un ambiente tetro e squallido. Poi, quasi a tranquillizzarci, rassicurandoci con la presenza di una famiglia borghese. Infine, in un crescendo di paure e sospetti, ci accompagna alla scoperta di una verità inaspettata. Una verità che stravolge la realtà, anzi arriva a negarla e ad annullarla completamente, o quasi. Rimane un’unica presenza reale che si sarebbe voluta invece non vera: la ragazzina. Presenza reale, di una ragazzina che era stata rapita, non frutto immaginario di una mente malata. E la famiglia? La famiglia, vera o proiezione del nostro bisogno di sentirci considerati, consolati e protetti, continuerà ad essere presente, ad esistere anche all’interno di una prigione, dove la società relega giustamente in conseguenza di fatti criminosi. Sarà stato un film drammatico, un giallo, un thriller psicologico dove gli psicofarmaci fan da padrone, francamente non saprei dire. Il cinema è un insieme di immagini, di parole e di suoni che, reali o di pura fantasia, ci deve condurre nel mondo che il regista costruisce per noi per stimolarci a riflettere sulla realtà che ci circonda o a guardarci dentro, ad una realtà che non si vede ma che tutto ordina o scompiglia. So solamente, e questo è il grande merito di questo film, di essermici arrovellato, di averci pensato: subito dopo essere uscito dal cinema, il giorno seguente e il giorno dopo ancora!