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Libertà di pensiero

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A cura di Carmelo Sciascia

Dolceroma: tanta grazia, tanta disgrazia

In una recente intervista la scrittrice Valeria Parrella,  esprime questo giudizio riferendosi al Regno delle due Sicilie: “A Palermo come a Napoli, ci vedi tutta questa grazia – architettonica, culinaria, culturale – e tutta questa disgrazia: nel lassismo, nella disorganizzazione. Tutta questa eccellenza di cervelli – i migliori medici, i migliori studenti – e tutto questo sperpero con la gente in fuga”. Credo che la frase potrebbe essere traslata, senza colpo ferire, da alcune regioni a tutto il panorama nazionale. A farmene persuaso ha contribuito un film appena uscito di Fabio Resinaro “Dolceroma”, titolo scritto proprio così tutto attaccato come scrivevano tutto unito Lamerica, forse più per convinzione che   per analfabetismo, gli italiani emigrati negli Stati Uniti nel Novecento.

La città di Roma in questo film, come era avvenuto nella Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, diventa la cartina di tornasole della nostra società, una società che si affida a sontuose ed equivoche feste elitarie nell’illusione di produrre chissà quale miracoloso evento culturale. 

Nella Grande Bellezza, film del 2013, un giovane Jep Gambardella (Toni Servillo) arrivato ventiseienne a Roma si ritrova ad essere diventato un giornalista mondano che festeggia il suo sessantacinquesimo compleanno. Il mancato scrittore, diventato giornalista (si dice così anche dei critici d’arte, nel non essere diventati artisti) si trova ad essere la massima espressione della mondanità, tanto da poter dire: “Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.

In Dolceroma, troviamo uno scrittore di tre anni maggiore di Jep Gambardella, Andrea Serrano, inserviente in un obitorio, che si precipita a Roma chiamato da un produttore che del suo primo libro (senza averlo letto completamente) si dice entusiasta tanto da volerne ricavare un film.

Il produttore è un certo Oscar Martello, un impresario parassita, con tante amicizie equivoche,che in una sontuosa villa romana, sfoggia tutta la sua prosopopea, tra cocktail, sigari e katane . In una Roma, dove regna un arido arrivismo, una spasmodica ricerca del successo, dove "nessuno dice quello che pensa e nessuno fa quello che dice".

 Mi è piaciuto il film, mi è piaciuta la storia. Della trama del film non dirò quasi più nulla, perché sono convinto che bisogna lasciare sempre lo spettatore nella quasi completa ignoranza sul film, solo così potrà apprezzarne le qualità e scoprirne il valore (se ne avrà).

A Roma, città simbolo d’Italia, per riprendere la frase iniziale, c’è tanta grazia: d’arte, di storia, di cultura, così come c’è tanta disgrazia: lassismo, disorganizzazione, corruzione e l’elenco potrebbe continuare perché a mio avviso i due estremi non sono equivalenti in numero e qualità, essendo i secondi di gran numero maggiori.  E se di questa “disgrazia” il cinema se ne fa carico, rende sicuramente un servizio ai cittadini, che sono sì consapevoli, ma necessitano di essere messi sempre di fronte all’evidenza, nella speranza che si possa prospettare un qualche cambiamento.

Molti ci hanno indicato i mali d’Italia e degli Italiani. Dante li ha descritti e sottolineati già nella sua epoca, vale per tutte la seguente terzina: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”. Machiavelli è stato un altro attento osservatore dei mali d’Italia, partendo dall’esame delle tragiche vicende storiche che vanno da fine Quattrocento ad inizio Cinquecento. E così potremmo continuare fino a tutto il Novecento.

Il regista, essendo giovane (nato nel 1980 a Milano, praticamente come lo scrittore del film), ha vissuto sulla sua pelle il disagio della sua generazione, ma non solo, perché la sua difficoltà di affermarsi corrisponde alla difficoltà di tanti giovani e meno giovani che si trovano ostacolati, se non ostaggio di un mondo ostile, un mondo governato da personaggi squalificati e squallidi, quale il Produttore della storia cinematografica, Oscar Martello.

Ricordate la seconda parte della frase iniziale della scrittrice Valeria Parrella: “Tutta questa eccellenza di cervelli – i migliori medici, i migliori studenti – e tutto questo sperpero con la gente in fuga”. Ecco, la fuga dei cervelli (come della gente comune) è il frutto di un sistema che promuove personaggi come il giornalista Jep Gambardella della Grande Bellezza o il produttore Oscar Martello di Dolceroma. Una politica che promuove un modello culturale che vede la sua massima espressione in programmi televisivi quale Il Grande Fratello o L’Isola dei Famosi.

Numerosi i colpi di scena che si susseguono nel corso dell’opera, alcuni verosimili altri spettacolari richiami a famosi film d’azione. Il giovane scrittore Andrea Serrano deve farsi strada usando lo stesso metodo (discutibilissimo) del produttore Oscar Martello, fino a giungere ad una tale unità d’intendi da divenire personaggi interscambiabili. È una grande lezione morale, basata su una rappresentazione metaforica, che ci viene data.  Roma cartina di tornasole di un’Italia che vive su una rappresentazione fasulla della realtà, che si basa sulla finzione e l’inganno. La lotta finale tra le fiamme, dello scrittore e del produttore, sono la giusta rappresentazione, di una lotta inutile, perché chiunque vinca il risultato non cambierà. In un linguaggio meta cinematografico, troviamo tutti i mali d’Italia, dalla corruzione alla disorganizzazione, dalla superficialità al pressapochismo, per giungere alle organizzazioni malavitose ed agli omicidi impuniti, dove il colpevole è la vittima. L’incendio della villa, piena di meravigliose opere d’arte, del produttore Oscar Martello mentre combatte (fintamente) con il giovane scrittore, riporta alla memoria le gesta di un celebre imperatore che aveva visto, come soluzione finale ai mali della Città, una Roma da bruciare.

Dolceroma: tanta grazia, tanta disgrazia

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