rotate-mobile
Libertà di pensiero

Libertà di pensiero

A cura di Carmelo Sciascia

È stata la mano di Dio…e tu sai che non sei solo

È bastato andare al cinema per sentirsi catapultato proprio negli anni Ottanta

Era il 1987 quando un tifoso del Napoli, arrampicatosi fin sopra il monumento ai Mille dei giardini Margherita, di fronte alla stazione ferroviaria, sventolava la bandiera della sua squadra per legarla infine alla statua di Garibaldi, come a coinvolgere, compagno di mille avventure, l’Eroe dei due mondi, nel campionato calcistico cha aveva visto quell’anno la conquista dello scudetto da parte dei Partenopei.

Era stato l’anno del Napoli di Maradona: di Diego Armando Maradona, argentino di nascita, napoletano d’adozione. Per chi, come me, di calcio non si era mai occupato non era un fatto eccezionale, non importava chi vincesse il campionato, tantomeno chi fosse stato il capocannoniere. Almeno fino agli anni Novanta, quando il Piacenza, conquistava per la prima volta la promozione alla massima serie. Ma questa è tutta un’altra storia.

È bastato andare al cinema per sentirsi catapultato proprio negli anni Ottanta. Gli anni del Napoli di Maradona… la mano di Dio che aveva portato alla tanta agognata scalata calcistica e con essa alla tanto desiderata visibilità nazionale che non fosse la congenita etichetta malavitosa con cui veniva identificata tutta la città ed i suoi abitanti.

È stata la mani di Dio a salvare possibilmente tanti giovani napoletani, come quel giovane che aveva messo nelle mani di Garibaldi il vessillo azzurro della sua squadra si sarà sicuramente salvato dalla disoccupazione trovando lavoro a Piacenza. Tanti altri ragazzi si saranno salvati in questo modo, come Fabietto (Filippo Scotti), il personaggio principale del film di Paolo Sorrentino, salvato dalla mano di Dio, o meglio da chi quella mano ha rappresentato per i Napoletani.  Il ragazzo si salva perché non va a Roccaraso, dove si erano recati i suoi genitori per trascorrervi un tranquillo fine settimana. A Roccaraso la famiglia Schisa aveva comprato una villetta dove felici, tra uno scherzo e l’altro, Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo), i genitori di Fabietto, avevano ritrovato, dopo i litigi per i tradimenti del marito, la serenità coniugale. I due muoiono per una banale esalazione di monossido di carbonio, il figlio Fabietto rimarrà profondamente addolorato perché non potrà vedere, in ospedale, i corpi dei propri genitori. A questo punto si insinua l’idea che il film sia un’opera autobiografica. E lo svolgimento della pellicola ce lo confermerà: è un film autenticamente autobiografico, perché anche Fabietto, come a sua volta aveva fatto Paolo, oltre ad aver perso i genitori prematuramente, vorrà fare il regista ed andare a Roma.

Maradona l’aveva salvato fisicamente dalla tragedia che aveva colpito i genitori, il cinema lo salverà da adulto facendolo uscire dalle difficoltà adolescenziali.  È qui ci troviamo di fronte ad un film che diventa un racconto di formazione. Come i libri cui eravamo abituati da ragazzi, da L’isola di Arturo di Elsa Morante ad Agostino di Alberto Moravia, romanzi di formazione, che guarda caso hanno un rapporto intrinseco con isole che possiamo considerare propaggini napoletane: Procida (l’isola di Arturo) ed Anacapri (Agostino). O come “L’Amica geniale” saga contemporanea della scrittrice napoletana Elena Ferrante, nome vero o pseudonimo poco importa.

Come in ogni romanzo di formazione non poteva mancare il sesso. La consapevolezza della propria identità sessuale è frutto dei primi incontri, delle prime esperienze, che logica vorrebbe piacevoli ma che il più delle volte sono dolorose. Il passaggio dall’adolescenza alla maturità in Fabietto Schisa avviene dapprima attraverso la contemplazione del nudo corpo statuario della zia, una donna visionaria, vittima di violenza ed in preda ad improbabili consessi carnali causati da conclamata malattia mentale. Poi attraverso l’incontro platonico con una ragazza aspirante attrice. In ultimo con un vero e proprio rapporto sessuale, subito più che voluto, avuto con una baronessa, vedova e già avanti negli anni. La baronessa compie con questo rito di iniziazione un vero e disinteressato atto d’amore, porga una mano, si fa per dire, per uscire dal dolore che attanaglia l’adolescente Fabietto.

C’è il mare, tanto mare, in questo film, come c’è la città di Napoli, tanta Napoli. E di Napoli non poteva mancare il “munaciello”, il piccolo monaco, uno spiritello. Il munaciello appare nel film, una prima volta, come testimone ancestrale nell’incontro della zia con San Gennaro, una seconda volta nelle vesti di un ragazzino che con il suo sorriso auspica una splendida carriera cinematografica all’attore-regista.

Le urla delle tifoserie hanno sempre caratterizzato tutte le curve degli stadi. Le grida delle tifoserie, spesso invettive verso gli avversari, indispongono ed infastidiscono. In questo film avviene il contrario, la presenza del “pibe de oro” e dei cori dei tifosi fanno da delicato sottofondo a tutta la storia, sono la colonna sonora e fotografica di tutte le vicende dei personaggi che popolano il vario universo partenopeo.

C’è un mondo, in questo film, tutto il mondo di Sorrentino, della sua infanzia, della sua Napoli. Ma ci siamo anche tutti noi, basta girarsi e guardare: alle nostre spalle si vedono comparire tutti i fantasmi della nostra infanzia, le esperienze vissute ed i desideri che ci hanno traghettato nel mondo degli adulti.

Il messaggio più sentito e sincero ci giunge nelle note finali dalle parole gridate dal regista Antonio Capuano che invita Fabietto a non “disunirsi”, con la partenza, dalla sua città. Anche se si va via non ci si può disunire da tutto ciò che rappresenta il nostro passato, nel senso che non ci si può distaccare dalla propria formazione, dalla cultura generale che costituisce l’ossatura portante del nostro passato.

E la stazione isolata e desolata che appare nel finale mi riporta alla stazione del mio paese, alla stazione di Racalmuto, dove ragazzo prendevo il treno ogni mattina per andare in città al liceo, un liceo come quello che ha frequentato Fabietto nella sua Napoli.

L’irrompere, quasi voce fuori dal coro, di Pino Daniele e della sua canzone con Napule è… fa sobbalzare!

Perché ognuno sa che non può vivere senza il proprio passato, il proprio paese, perché “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. ... Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Questo scrisse Pavese.  “Napule è mille culure /Napule è mille paure/ Napule è a voce de' criature/Che saglie chianu chianu/ E tu sai ca' nun si sulo” così cantò Pino Daniel.  E tu sai che non sei solo…

È stata la mano di Dio…e tu sai che non sei solo

IlPiacenza è in caricamento