Gli artisti fanno monumenti ai cavalli
La nostra sezione Cultura, curata dal giornalista Renato Passerini, dedica questo spazio alla segnalazione e recensione di libri piacentini. Ne entrano a far parte le opere che trattano argomenti riguardanti la nostra provincia: geografici, storici, ambientali, economici, urbanistici, folcloristici, ecc.; a queste si aggiungono i libri di autori piacentini, per nascita o per adozione e i cataloghi delle esposizioni allestite sul territorio provinciale e i racconti degli amici lettori
Gli artisti fanno monumenti ai cavalli
Io li farei al cane (e al maiale)
Animali da mettere sul piedistallo
Nelle mie villeggiature pavesi al Policlinico San Matteo, mi resta tempo e voglia per girare fuori della cittadella ospedaliera e camminare per la città delle tante torri (che io però non ho mai avuto voglia di contare). E così all’ombra delle torri del Castello Visconteo cosa ho scoperto? Un monumentino davvero singolare e per me simpaticissimo.
Qui da noi a Piacenza in fatto di monumenti dominano i cavalli. Non diciamo che sia un circo equestre, ma ci manca poco. Questo in sintonia con una città di ippofagi, mangiatori di cavalli. Nel senso che prima li mangiano e poi gli fanno il monumento. Mangerebbero anche il cavallo di Troia, se non fosse di legno.
I cavalli cavalcano fieri e baldanzosi per piazze, piazzette e aiuole. C’è un illustre cavallo (di Bruno Cassinari) in piazzetta Tempio davanti al Palazzo della Prefettura. Ce ne sono due illustrissimi (di Francesco Mochi), i gloriosi “noss cavai” che ai piedi del Gotico dominano Piazza Grande, che non per niente si chiama Piazza Cavalli. Senza dimenticare il destriero di Giorgio Groppi che erge gli zoccoli sul praticello che fa da tappeto alla mole farnesiana del Vignola. E se non bastasse, la mandrianetta di neri e rampanti puledrini (non ho contato neanche loro), opere in vetroresina di Mimmo Paladino che poco tempo fa hanno trasformato la Piazza in una specie di stalla.
Sì, ne avrebbero da mangiare, i piacentini. Fortuna che questi sono di bronzo o vetroresina. Ma gli altri? Da mangiare crudi con aglio, o cucinati secondo la ricetta della picula con la polenta, vecchio piatto popolare della tradizione culinaria locale. Ah, gloriose criniere al vento finite sui tavoli delle osterie!
Tanti cavalli, abituati a concedersi alla vista delle folle come i vecchi e nuovi politici a concedere il bis dei loro discorsi. E gli asini? Gli asini sono pazienti e non sono ambiziosi e non si offendono di tanta ed esibita presenza equina, mentre a loro non è stato innalzato nessun monumento.
Monumenti no, ma un momento di gloria sì. Protagonista un po’ di tempo fa l’asino di Pontenure designato a un’impresa memorabile: volare. A compiere il volo dalla torre campanaria.
E fu qualcosa di veramente memorabile che si ricorda, anzi si commemora ancora. Anche se gli asini non hanno le ali, e l’avvenimento finì grosso modo come per Icaro. Il quale sprofondò in mare, l’asino si spiaccicò a terra. Una lacrima per il povero asino, e una pernacchia per chi ebbe questa stronza idea.
Cavalli, asini, mule e mulasse… Sì, onore alle favolose mulasse della mia infanzia e ai ragazzini come me che al grido di “ocio mulassa ca vegn” si lanciavano come missili a cavalcioni sulla fila di schiene e teste chine dei compagni a formare un gobboso dorso, che più che un dorso di mulassa pareva un dorso di cammello.
“Ocio mulassa ca vegn...”, finché la mulassa non mollava sotto il peso dei cavalcanti.
E un monumento al maiale? L’ho fatto io parecchi anni fa. Più che fatto, immaginato. Tirandolo su a secco parola su parola. Nel mio romanzetto “L’anno del mai”, Edizione Costa e Conca, 1984. Il bello è che, tempo dopo, 1997, l’hanno fatto davvero, a Castelnuovo Rangone, in quel di Modena, con tanto di discorso inaugurale, l’”Elogio del maiale”, di un professore dell’università di Parma, le musiche di tre bande e la cottura di un superzampone da 3500 porzioni. Braccio e mente l’Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi.
Nelle mie pagine di allora, si racconta di una sparuta combriccola di vagabondi scalognati mortidifame che una pietra sopra l’altra fanno su anche lì a secco un rustico cippo e sopra mettono una corona con rami di quercia e di olmo e sotto scrivono: Al principe degli animali, al benefattore degli affamati. Perché un maiale nello stabbio era un salvadanaio, una cassaforte, una dispensa di salsicce, salsicciotti, cotechini, salami, coppe, mortadelle, prosciutti, pancette, zamponi…
Fu allora che quella compagnia di avventurosi e disgraziati fece la scoperta che anche il maiale, il numèl, il più animale degli animali, ha l’anima. Come? Pesandolo prima e dopo. Da morto pesava un po’ di grammi in meno. Il peso della sua animuccia.
Questa scena del libro è diventata scena di teatro nello spettacolo “La spada di legno”, 2009, passato alla Filodrammatica e ai Verdi di Fiorenzuola e Castelsangiovanni.
E i cani? A Pavia, nei giardini del Castello Visconteo, ho ammirato un monumento “al più fedele amico”, due cani plasmati nel bronzo, un bracco e uno spinone piazzati su una massiccia base di roccia rosata, uno con una zampa alzata come per scattare in una corsa. Il blocco scultoreo non è solo una bella opera, è anche un bel pensiero. E’ lì dal 1973, e chi l’ha realizzato è Ernesto Coppaloni, artista e cinofilo.
Non è che io voglia qui, per concludere, proporre o suggerire d’innalzare anche da noi qualcosa per gli amici cani, le più oneste creature di Dio. Perché allora i gatti dove li mettiamo? I gatti sono gelosi e permalosi, e guai se si facesse qualcosa per i cani e niente per loro. Sicuro come l’oro che se la legherebbero all’unghia.
Umberto Fava