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Giovedì, 25 Aprile 2024
Libri piacentini

Libri piacentini

A cura di Renato Passerini

“L’arte di chiamarsi Schopenhauer”

La nostra sezione Cultura, curata dal giornalista Renato Passerini, dedica questo spazio alla segnalazione e recensione di libri piacentini. Ne entrano a far parte le opere che trattano argomenti riguardanti la nostra provincia: geografici, storici, ambientali, economici, urbanistici, folcloristici, ecc.; a queste si aggiungono i libri di autori piacentini, per nascita o per adozione e i cataloghi delle esposizioni allestite sul territorio provinciale e i racconti degli amici lettori

I racconti dei lettori

A cura di Renato Passerini

La nostra sezione Cultura, curata dal giornalista Renato Passerini, dedica questo spazio alla segnalazione e recensione di libri piacentini. Ne entrano a far parte le opere che trattano argomenti riguardanti la nostra provincia: geografici, storici, ambientali, economici, urbanistici, folcloristici, ecc.; a queste si aggiungono i libri di autori piacentini, per nascita o per adozione e i cataloghi delle esposizioni allestite sul territorio provinciale e i racconti degli amici lettori.

 L’arte di chiamarsi Schopenhauer

         L’importante è chiamarsi Ernesto o Schopenhauer? Su una questione così delicata io non mi pronuncerei. Anche perché, a prova della delicatezza della cosa, sull’importanza di chiamarsi Ernesto, Oscar Wilde ha scritto una fortunata commedia, mentre non ha mai scritto nulla sull’importanza di chiamarsi per esempio Arthur o Umberto.

         E lo dice uno che si chiama per l’appunto Umberto, che è stato ventenne per quattro volte e che ha vissuto tutta la sua prima giovinezza con l’incubo di quell’anima nera di Arthur Schopenhauer. Un nome che gli incuteva terrore, un nome e cognome terribili e paurosi. Quasi una bestemmia.

         AS è nato nel 1788 e morto nel 1860. Dunque, per nessuna di queste date capitali ricorre al momento un anniversario. Buona ragione per parlare dell’Arthur, visto che nessuno al momento, in mancanza di anniversari, ne parla.

         Se ne poteva volendo parlare l’anno scorso, quando cadeva il bicentenario dell’uscita della sua opera più importante, “Il mondo come volontà e rappresentazione” (1820). Ma è proprio per questo – via dalle ricorrenze – che l’anno scorso non ne ho parlato.

         Perché parlarne ora, senza una ricorrenza? Semplicemente perché m’è venuta voglia di parlarne, e ne parlo perché m’è diventato simpatico, nonostante la sua fama di coriaceo pessimista. Mi piace non tanto perché influì su Wagner e Nietzsche o perché Tolstoj fu suo grande ammiratore.

         Mi piace per il fascino eccezionale della sua scrittura, ma anche per quei suoi basettoni ottocenteschi e per quei capelli lasciati crescere come erba selvatica. E mi piace soprattutto perché, pur essendo quello scettico che era e che disse “Il mondo è, ed è proprio come si vede, vorrei solo sapere chi ne trae vantaggio”, quel pessimista impenitente che scrisse che “la vita è un affare che non copre i suoi costi”, ebbene quello scettico e pessimista scrisse anche che nulla è imprevedibile quanto la vita che può essere anche insperatamente felice.

         E’ stato il maestro del pessimismo cosmico, colui che ha turbato i sonni recanatesi di Giacomo Leopardi, che lo ha impressionato e se non plagiato certo attraversato per tutta la vita dal brivido nero del Voltaire tedesco.

         Ma sono convinto che il giovane Giacomo si sarebbe, come dire, sentito un po’ sollevato e sgelato davanti al temuto ed ammirato pensatore se avesse saputo che un giorno in cui evidentemente non ne poteva più il grande Arthur aveva preso per il collo una sua vecchia e insopportabile vicina di casa e l’aveva buttata giù dalle scale.

         Ah, sublime grandezza della piccola vita di vicinato, indicibile ebbrezza di un gesto liberatorio che libera chi lo compie e segna chi lo riceve. Sono quasi certo che in quel momento -  il fatale momento del lancio – per lui tutto il mondo come volontà e rappresentazione si concentrò nel breve e immenso spazio delle rampe delle scale.

         Lo descrivono antipatico, scorbutico, iracondo, avaro, egoista, misantropo, ma un fatto così – molto troppo umano anche se poco filosofico – m’ha reso il terribile filosofo che osava asserire che la vita è una miseria e la madre di tutti i problemi, me l’ha reso più simpatico, più vicino, più simile. Tanto che mi sono preso la confidenza di riscrivere il suo titolo “Il mio Oriente” in “Il mio Oriente finisce sul Po a Cremona”.

         L’avesse saputo Giacomo, magari gli veniva la tentazione di fare lo stesso con la sua bella e conturbante Fanny, prenderla e lanciarla giù. Di certo quella civettona non avrebbe più scordato il poeta di Recanati, almeno il tempo che avrebbe trascorso col braccio al collo e la gamba ingessata. E avrebbe capito anche lei la lezione di Schopenhauer, che la vita è forse sì una miseria, ma è anche una cosa imprevedibile.

         L’unica cosa che mi delude di AS è la morte: per una banale polmonite può andare all’altro mondo un presidente, un papa, un banchiere, un maxi direttore generale, mica uno Schopenhauer. No, uno come lui non può morire in modo così borghese e volgare. Per uno come lui ci vuole un’uscita di scena assai più sensazionale e spettacolare, direi wagneriana… Che so, incenerito da una folgore nella Foresta Nera o inghiottito dal mare in una notte di tempesta o precipitato dalla cima dell’Everest, che è un’altra cosa che volar giù dalle scale.

         Ma a proposito di Schopenhauer, colui al quale Wagner, altra splendida anima nera, dedicò “L’anello del Nibelungo”, a proposito di lui ho un episodietto capitatomi qualche anno fa a Ischia durante una vacanza coi colleghi giornalisti pensionati, specie quelli dell’associazione dell’Alto Adige.

         A Ischia, è noto, ci sono belle ed eleganti boutique che era una bellezza, un rito visitare con mia moglie, un piacere inferiore solo a quello notturno di bere un cocktail in qualche caffè in riva al mare e sentire una voce cantare “Odio l’estate” di Bruno Martino.

         Ma, pensate un po’, c’era pure una libreria. L’ho scovata per caso, rintanata tra vecchi vicoli e vicoletti, lontana dalle vie dei luccicanti negozi. Davanti alla vetrina guardavo i titoli, quando una donna mi s’è affiancata. Siamo in due a interessarci di libri, ho pensato. Ma pensavo male. Quella voleva solo specchiarsi e aggiustarsi la camicetta.

         Per entrare ho dovuto farmi largo in un groviglio di ragnatele, una fitta giungla bianca. Mentre frugavo e guardavo fra gli scaffali, è entrata – profittando del varco da me aperto – una signora di non più giovanissima età, insomma più matura che acerba. Doveva essere una turista milanesa, così milanesa che lo si vedeva subito da com’era vestita e acconciata, occhiali neri da milanesa per vederci meglio in quel nero antro, parlata da milanesa, più milanese di lei c’è solo Sant’Ambrogio.

         S’è attaccata al libraio, non lo mollava più, lo mitragliava, questo romanzo di cosa parla, e quest’altro, è avventuroso, è sentimentale, è realista, ha un lieto fine o mi farà piangere?

         Io non potevo non sentire, ero lì in quella spelonca scura e aspettavo che finisse, ma non finiva e non si decideva mai e continuava a menarla, e questo libro com’è, è bello, è brutto, è coinvolgente, è poetico, è audace? Mi piacerà o mi pentirò? Sa, io sono di gusti difficili.

         Lei autoritaria, petulante, padronale, un’edera; il proprietario paziente e servizievole le andava dietro tra gli scaffali come un cagnolino, esausto ma speranzoso, questa qua mi compra mezza libreria. Fortuna che in giro la signora non ha visto “I fratelli Karamazov”, se no se lo faceva raccontare  da cima a fondo.

         Io non dicevo niente, e aspettavo. Il libraio diceva ogni tanto qualche sì, no, ma… Parlava tutto lei.

         Mentre lei seguitava con la sua vociona da padrona del vapore a far caciara e a profanare quella sacra e silente atmosfera di catacomba paleocristiana, io pensavo a Schopenhauer e alla sua vicina di casa, e pensavo anche che lì però non c’erano scale.

         E questo? Cosa ne dice, me lo consiglia, e quest’altro ha una bella storia? E come finisce?

         Cocca, le volevo dire un bel momento, se vuoi sapere come va a finire, te lo compri e te lo leggi, così la pianti.

         Non gliel’ho detto, non sono stato così brutale. Le ho però detto gentilmente: “Faccia come faccio io, prenda questo”.

         E le ho messo sotto il naso un volumetto dalla copertina giallina, “L’arte di invecchiare”, Schopenhauer, Adelfi, 8 euro.

         Non, non l’ha comprato, né quello né mezza libreria. M’ha lanciato uno sguardo carico d’odio, ma ha chiuso finalmente quella sua bocca-rubinetto e se n’è andata.

         Grazie, Arthur. A te e ai tuoi “Senilia”. E ai tuoi insegnamenti di vecchio gufo sapiente: “Basta solo invecchiare bene, e tutto torna...”.

         Post Scriptum

         Credo d’essere stato divertente anche parlando di quel bel tipo di Schopenhauer. Buon per me, visto che c’è gente – prendete i politicanti – che non riescono ad essere seri neanche parlando della fine del mondo.

        

                                                                                             Umberto Fava               

“L’arte di chiamarsi Schopenhauer”

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