L’immagine di un soldato straniero per celebrare il centenario del Milite Ignoto
La nostra sezione Cultura, curata dal giornalista Renato Passerini, dedica questo spazio alla segnalazione e recensione di libri piacentini. Ne entrano a far parte le opere che trattano argomenti riguardanti la nostra provincia: geografici, storici, ambientali, economici, urbanistici, folcloristici, ecc.; a queste si aggiungono i libri di autori piacentini, per nascita o per adozione e i cataloghi delle esposizioni allestite sul territorio provinciale e i racconti degli amici lettori
Povero Milite Ignoto! E’ sepolto da cent’anni sotto i marmi dell’Altare della Patria, a Roma, e le celebrazioni per l’anniversario sono cominciate nel modo peggiore. Il povero e sconosciuto fante caduto nella Grande Guerra è stato, su un manifesto diffuso dalla Presidenza del Consiglio, è stato confuso, scambiato con un marine americano della seconda guerra mondiale.
Povero e misconosciuto soldato italiano! Ignoto e maltrattato. L’ha trattato assai meglio Umberto Fava rendendolo protagonista di un racconto, “Il fuggiasco”, uscito nel 2018 sull’Annuario Sat-Società Alpinisti Tridentini Carè Alto (Editrice Rendena), con un prezioso corredo di foto storiche, autentiche immagini di fanti ed alpini italiani fra le nevi e i ghiacci, tutte tratte da pubblicazioni della stessa Editrice Rendena.
L’8 novembre di quell’anno ilPiacenza pubblicò alcuni passi del lungo racconto nella rubrica “Libri piacentini” a cura di Renato Passerini, che nella nota introduttiva precisò che “Il fuggiasco” veniva in alcune sue parti pubblicato “non come ulteriore omaggio alle celebrazioni di questi giorni (per il centenario della fine della Grande Guerra, n.d.r.) spesso accompagnate da scivolate nella retorica”.
“Questo “Fuggiasco” - scriveva ancora Passerini – non celebra e neppure provoca (come potrebbe anche sembrare). Suggerisce invece una riflessione sulla guerra che è odio alla vita. E il lamento che si solleva dalle pagine del racconto diventa un canto in lode alla vita”.
Ma chi è il Fuggiasco? E perché è fuggito? Da dove e da chi? Lo rivela questo brano quasi finale del racconto di Fava.
Adesso aveva ripreso a canticchiare fra sé: “Non ti ricordi quel mese d’aprile quel lungo treno che andava al confine...”. Ma di colpo frenò la lingua.
“Ferma il treno – gridò poi a un tratto lo Sconosciuto fuggitivo al suo Virgilio – Voglio scendere qui”. Era un soldato semplice, ma ora aveva il tono di un generale.
Per lui il viaggio finiva lì, nelle valli.
Scesero in vista di uno di quei cimiteri posati sulla stregata solitudine dell’alto monte. Là per aria tra fratte ed anfratti, fra pietraie e trincee, a una spanna dal superno divino cielo, fra mistadelli di Cristi in croce e Madonne addolorate, gli uomini – in gran parte gente presa dai campi e dalle fabbriche – non dovevano essere uomini, ma superuomini ed eroi pieni di ferina leoninità quando dovevano con occhi pazzi arrembarsi su per i fili spinati, con l’orrore e il terrore che gli intasavano gli occhi e non gli facevano vedere altro che gente da trapassare con la baionetta.
Ad un certo momento intonò nuovamente “La tradotta che parte da...”, ed anche stavolta non a voce spiegata, ma quasi a bocca chiusa. Naturale, dato che lì attorno tutti avevano ancora la bocca piena di terra, e non potevano cantare tutti in coro il canto del loro ultimo viaggio.
Lassù lo Sconosciuto non c’era nato. C’era morto. Una granata, una baionettata, una schioppettata, una mitragliata, una cannonata? Non lo sapeva neppure lui, la morte è un piccolo ignoto punto nero, dentro cui non c’è altro da vedere che la morte. Si sarebbero dovute vedere le piaghe che si portava in corpo e nell’anima, sì anche nell’anima, perché il sibilo dei proiettili gli foravano anche l’anima.
“Portami là, indicami il mio posto”. Così a mani giunte come dicesse l’Ave Maria, pregava il suo Virgilio.
“Perché?”, gli domandò Virgilio.
“Voglio stare coi miei compagni, voglio continuare a morire con loro...”.
Spasimava così dopo la lunga solitudine di quegli anni passati nella sigillatezza della morte come in un nascondimento, dentro una prigionia di lucidi marmi, in una barbara nostalgia, mentre il cuore gli si fendeva per la brama dell’antico cameratismo, di quella sventurata fratellanza.
“Vieni – gli disse allora Virgilio – T’accompagno dove dormono gli altri, se non tutti una gran parte”.
Uno che ha fatto da guida nell’inferno di Dante può benissimo guidare un soldato semplice in quest’altro inferno di morti innocenti, di vite crocifisse sui reticolati, di nomi cancellati sulle croci dei cimiteri e resi ignoti dalle bombe, dal tempo e dalla dimenticanza.
Se era ignoto a Roma, non era ignoto lassù fra i suoi compagni d’armi, i suoi ritrovati fratelli di sangue e di pena. Da milite ignoto era diventato l’ignoto fuggitivo dall’Altare della Patria, stanco morto di cerimonie patriottiche, discorsi celebrativi, corone, presentarm, attenti-riposo… “Così m’ammazzano un’altra volta”, sospirava, deciso a non voler più essere un carcerato di lusso guardato da guardie in alta uniforme. Via, via, fuggire, sparire da lì, volatizzarsi, risalire su una tradotta, correre lontano chilometri e chilometri da presidenti, ministri, sottosegretari, generali, tutti solenni e pomposi come papi. Anche da generali, sì, magari i medesimi che ordinavano quegli assalti all’arma bianca, che diventava rossa se si uccideva, restava bianca se si era uccisi.
Camminare su quei sentieri e per quelle mulattiere gli faceva battere il cuore a martellate, così fremebondamente che quasi l’intronava fin dentro le ossa e lo riempiva di una smania che non stava più nella pelle, se così si può dire di un morto. Da lì non si sarebbe più mosso, avrebbe messo radici profonde nella terra, non sarebbe più sceso laggiù nella capitale nel suo monumentale lussuoso sepolcro, questo era sicuro. Se quel sepolcro era sacro alla patria, questa terra che ora era tornato a calpestare era per lui più sacra ancora, perché vi era stato sparso il sangue, anche il suo.
Il fuggiasco non sarebbe più tornato, questo era sicuro, anche se presto sul monte sarebbe sorta la luna, che era meglio che non sorgesse più, perché non splendesse lassù come una larga macchia di sangue capace di tingere di sangue tutto quanto, anche le facce di chi vi passa sotto. E se la luna sopra alture e fratte non era una macchia di sangue, era un incendio pure lei.
Dove passa la guerra, è soprattutto l’amore col suo immortale sorriso a soffrirne, patirne, morirne. A Roma, al posto lasciato libero dal fuggiasco, dovevano metterci Lui, l’Amore, seppellirlo lì, fra i candidi e celebri marmi, tutto l’Amore del mondo, offeso, umiliato, calpestato, fatto a pezzi, distrutto. Come una di quelle pacifiche e belle foreste scarmigliate dalla furia. L’Amore come la negazione della guerra, e la guerra come la perfezione dell’odio e della disperatezza. Dato che con l’Amore non si vincono le guerre, si perdono.