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Locale-globale. Noi visti da fuori

Locale-globale. Noi visti da fuori

A cura di Flaviano Celaschi

L’immagine del territorio come biglietto da visita

Come italiani non siamo generalmente orgogliosi di esserlo, salvo quando qualcuno offende la nostra Patria. Ma perfino in Indonesia hanno capito l’importanza di comunicare il territorio come un brand ed hanno dato spazio ad iniziative private onorevoli che riguardano la storia, anche politica del Paese

Che razza di Paese il nostro: non funziona mai nulla, siamo sfigati, ritardatari, impiccioni, mammoni, pettegoli, inermi, vecchi, faccendieri e bancarottieri, puttanieri, etc., ma l’importante è che siamo noi a dirlo! Guai a chi dall’estero ci fa notare i nostri difetti. E non siamo mai troppo orgogliosi di essere italiani fino a quando la patria non è in pericolo di aggressione. Nessuno osi!!! Che strano; visto soprattutto che nella mia piccola esperienza di 20 anni di lavoro all’estero direi che non esiste Paese che non ci stimi e che non abbia del nostro Paese un’opinione eccezionale (perfino esagerata, va detto).

Invece in moltissimi altri Paesi esiste un orgoglio forte di essere cittadini di quel Paese e ci si ingegna a fare in modo che altri lo stimino nel migliore dei modi. Perfino in Indonesia, crescente “tigre del turbo capitalismo di tipo BRIC”. Un Paese dove i contrasti tra povertà in termini di capacità di spesa e condizioni di vita e super consumismo sono imbarazzanti e dove 250 milioni di cittadini occupano un arcipelago che occupa, mari compresi, un’area analoga a quella del Brasile, sono orgogliosi di aver conquistato circa 70 anni fa (guarda caso nel 1945 come noi) indipendenza dai colonialisti e forma di repubblica.

In molti punti strategici della metropoli e dei principali centri del Paese per esempio un giovane designer ingegnoso ha inventato il marchio “Damn…. I love indonesia”, che sarebbe ovviamente: “Accidenti, io amo l’Indonesia” (vedi foto), e ha costruito una rete di franchising che diffonde la storia culturale e politica dell’Indonesia in forma di merce, come si usa dire oggi, in forma di merchandising.

Ora, non che trasformare in merce la cultura sia un processo che può essere fatto inconsapevolmente e a qualunque condizione, ma direi che nemmeno vergognarsene a tal punto da riservarne il dialogo solo tra addetti ultra preparati mi pare sia di difficile sostenibilità sociale.

Incredibile è che in questi negozietti vengano mostrati video della storia del Paese e della sua indipendenza politica, dei personaggi che l’hanno costruita, delle parole che hanno usato per difenderla, etc., a partire da Soekarno Hatta, urbanista e padre fondatore ed innovatore e pianificatore della Patria libera dal 1945. La sua immagine e i suoi motti diventano T shirt, ombrelli, abiti, portachiavi, libri, etc., tutto quello che può modernamente diventare utile a dimostrare un tifo quasi calcistico per la propria patria.

Sarebbe come se noi facessimo un punto vendita nel quale poter celebrare i padri della Costituente o i padri del Risorgimento, i grandi della cultura, della politica, dell’arte, del pensiero, di cui non siamo certo poveri. Inutile dire che l’esperimento ha avuto successo e la qualità dei prodotti nonché la raffinata scelta dei video, delle parole, delle immagini, e la loro trasformazione in comunicazione (che piaccia o no come fenomeno) sta avendo un grande successo, ovviamente molto ben visto dal governo locale.

Proprio noi che siamo uno dei Paesi più ricchi del mondo di offerta di storia, cultura, scienza, lotte di indipendenza e di coscienza politica e sociale ci riduciamo a non esserne nemmeno coscienti noi stessi del loro valore e della sua spendibilità comunicativa; proprio vero che si annega nell’abbondanza. E così in Indonesia conoscono la Juventus, il Milan, ma nulla sanno del resto che rappresentiamo.

L’immagine del territorio come biglietto da visita

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