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Martedì, 16 Aprile 2024
Piacenza Nostra

Piacenza Nostra

A cura di Cesare Zilocchi

Giovanein Titlac, il vagabondo delle cascine

Sotto un sole spaccasassi la sua figura si stagliava da lontano, all’imbocco dello stradello. Qualcuno dall’aia, dagli orti o dal cassero dava l’annuncio come il pastore dannunziano che per primo vede il tremolar delle marina: “arriva, arriva Giovanein Titlac!”

Sotto un sole spaccasassi la sua figura si stagliava da lontano, all’imbocco dello stradello. Qualcuno dall’aia, dagli orti o dal cassero dava l’annuncio come il pastore dannunziano che per primo vede il tremolar delle marina: “arriva, arriva Giovanein Titlac!” Allora chi era appisolato negli scampoli ombrosi della grande cascina padana a pianta quadra strizzava gli occhi e allungava il collo per recuperare la prospettiva lunga in mezzo ai filari dei gelsi. Persino qualche antone di finestra sbadigliava quel tanto da sbirciare verso la strada grande. Era lui, inconfondibile nel pesante pastrano incolore, lungo quasi ai piedi e il cappellaccio a tese larghe e mosce, preceduto da uno smisurato bastone che pareva un pastorale biblico. Avanzava a schiena dritta e lento, leggermente ciondolante per via di una gamba scifola. Sembrava alto e i suoi passi andare al tempo con il   tic-tlac battuto dal lungo bastone di pioppo. Freneticamente i monelli si riunivano per studiare l’accoglienza. Finiva sempre alla stessa maniera: nascosti nel fosso, lungo lo stradello, aspettavano sbirciando che il suo cespuglioso pelame si presentasse di profilo e all’improvviso scattavano fuori urlando titlac titlac titlac. Una celia passata chissà come di bocca in bocca, di cascinale in cascinale, di anno in anno, di stagione in stagione.  

Giovanein non aveva un cognome e forse anche il nome era posticcio. Il bizzarro epiteto doveva in fondo piacergli come una identità tutta sua. Del resto quel barbone vagabondo era l’ultimo uomo rimasto a parlare in terza persona come il papa. Però fingeva di imbufalirsi e roteava minacciosamente l’innucua canna imprecando e minacciando. Gli adulti si guardavano bene dall’intervenire, Giovanein non aveva mai fatto male a una mosca.

Dopo il rito dell’accoglienza, i monelli vocianti lo accompagnavano nel suo giro, agli usci dei braccianti, dei bergamini, dei carrettieri. Dal profondo della barbaccia tirava fuori una vocina irreale, cantilenante come quella di un bambino, senza un raddoppio di consonante, sospesa fra un tentativo di italiano e un disastro di dialetto: “dona, dà a Giované un bicer de vin?” La massaia, ogni volta, ripeteva la vecchia pantomima: “vuoi un bicchiere di vino o dieci lire?”

Giovannino, potete capire, in quelle torride ore di primo pomeriggio da dio Pan, sotto il peso allucinante del pastranone, optava per il vino, che sorseggiava adagio, con una ritualità tutta sua. Restituendo il bicchiere vuoto lanciava uno sguardo malinconico alla moneta da dieci che la donna teneva ancora in bella evidenza. “Ah briccone, ora che hai bevuto il vino vorresti anche i soldi, non è vero...” A qual punto l’orgoglio del vagabondo subiva una scossa. A capo chino s’allontanava salmodiando: “dona cativa, dona cativa ...”

Più o meno la scena si ripeteva agli usci successivi, con la variante del pane in luogo del vino. I monelli ridevano, si davano di gomito toccando ciascuno nella tasca il soldo fattovi scivolare   dalla madre. Ultimato il giro, giusto quando il caldo calava un po’ e la gente riprendeva il lavoro usuale, si fermava all’ombra di un salice, presso la carrareccia che portava alla pila del letame. Tirava fuori da un tascapane una improbabile pipa di melica col cannello di sambuco e pretendeva di fumarci un indefinibile intruglio che puzzava vagamente di tabacco. Due, tre boccate e l’arnese s’ingolfava, come un camino stoppato. Allora chiedeva aiuto alla vigoria dei polmoni giovanili: “ragac’, picia [accendi] pipa a Giovanè”. Figurarsi! I marameo si sprecavano ed era il segnale di riprendere frizzi e lazzi, ripetendo all’ossessione, in tutte le cadenze: tit-lac tit-lac tit-lac.

Ma subito dopo salivano sul ciliegio, o sull’albicocco, sul prugno o sul fico e gli confezionavano un sacchetto della frutta che la stagione offriva. Qualcuno andava a levare un uovo o due nel pollaio e dalle tasche uscivano le famose monete da dieci.   Giovanein era felice e lo dimostrava a modo suo, roteando il lungo bordone, mimando minacce. Brontolando s’allontanava su rotte sempre uguali, come un uccello di passo. Neppure la recente guerra, con tutti quei soldati dalle diverse uniformi (e pure senza uniformi) che andavano e venivano, era riuscita a cambiare di un etto le leggi della sua esistenza.

Sarebbe tornato l’anno venturo, dopo aver visitato tutti, proprio tutti i cascinali della pianura piacentina da Gossolengo a Monticelli, dove altri monelli lo aspettavano per canzonarlo mentre agitava lo smisurato bastone.   A Polignano sarebbe passato dalla Fontanazza a sentire del Lolè, ch’era emigrato in America tanti anni fa, ma che sarebbe tornato con l’asinello che gli aveva promesso. Il sogno della sua vita, un asino col quale andare a far legna. Tanta lègna da stä mäl, prometteva solennemente la sua personale enantiosemia. Alla rüdeina (la piccola discarica della cascina) si fermava a rovistare e poi, lentamente, come il sole del tramonto estivo, spariva inghiottito dall’orizzonte rosso e pulito della campagna. Un giorno Giuvanein non tornò più. Era morto chissà-dove. Né avrebbe potuto tornare dove io l’avevo incontrato la prima volta e dove ogni estate lo aspettavo come si aspetta la trebbiatura del grano, la raccolta dei pomodori, la maturazione delle angurie nell’orto. Non avrebbe potuto tornare, perché la grande cascina a pianta quadra nel frattempo è diventata un residence elegante ed è abitata da persone che non hanno tempo e modo   di dar retta a un vagabondo claudicante e barbuto con la voce da bambino.

Giovanein Titlac, il vagabondo delle cascine

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