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Piacenza Nostra

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A cura di Cesare Zilocchi

Il funerale di Guareschi raccontato da un grande cronista piacentino

Il 24 luglio del 1968 era presente il giornale di Piacenza che l'indomani pubblicò sotto un bel titolo a tre colonne un dettagliato articolo a firma del cronista Gianni Manstretta

Quel 24 luglio 1968 pioveva, ma tanta gente della “bassa” seguiva commossa il feretro di Giovannino Guareschi. Senza fiori, senza autorità, senza politici, senza intellettuali di regime. E quasi del tutto senza grandi firme della carta stampata. C'era invece il giornale di Piacenza che l'indomani pubblicò sotto un bel titolo a tre colonne un dettagliato articolo a firma del cronista Gianni Manstretta. Qui lo ripropongo nella speranza che alcuni dei miei 22 lettori vogliano rendere intimo omaggio a tre persone diritte: il grande scrittore Giovannino Guareschi per il quale a Piacenza cominciava il “mondo piccolo” delle sue storie; il cronista Gianni Manstretta (morto nel 1995) che ci ha lasciato questo indelebile ricordo e il direttore Ernesto Prati (defunto nel 1994) che lo mise in bella pagina.

Libertà 25 luglio 1968

SEPOLTO IERI NEL PICCOLO CAMPOSANTO DI RONCOLE
SEMPLICI E SENZA FIORI I FUNERALI DI GUARESCHI

Roncole Verdi, 24 luglio

Vederlo così, nella cassa di noce chiara, sembra Peppone morto. Il volto è sereno, le sopracciglia irsute e i neri baffi spioventi hanno una piega dolce e distesa. E' vestito come sempre: camicia di flanella scozzese, giaccone di velluto. Gli stessi panni contadineschi che aveva fatto indossare al suo popolare personaggio. Tra quanti lo vegliano, o sfilano in muto pellegrinaggio nella sala al pianterreno della sua casa dove è allestita la camera ardente, volti noti di giornalisti e di scrittori: Giovanni Mosca, Carletto Manzoni, Alessandro Minardi, suoi compagni di penna degli anni eroici del Bertoldo e di Candido, Nino Nutrizio, Enzo Biagi e tanti altri mischiati nella muta folla dei compaesani con gli abiti della festa.

La gente affolla il cortile e la veranda della villa che lo scrittore stesso aveva progettato, ammodernando un vecchio cascinale: un insieme di stili rustici con tanti balconcini di legno, e una mansarda col tetto spiovente (dove aveva ricavato lo studio, al quale si accedeva attraverso una ripida e disagevole scaletta, anche per scoraggiare eventuali visitatori).

Poco dopo le 9,30, seguito da una lunga fungaia di ombrelli, Giovannino Guareschi ha lasciato la casa per compiere il suo ultimo viaggio terreno. La lucida cassa, portata a spalla dal figlio e da alcuni amici e parenti, ha percorso la stradicciola che dalla villa, poco discosta dal paese, porta alla chiesa: un lento procedere sotto la pioggia , mentre una leggera foschia sfumava i filari dei pioppi e la campagna intorno pareva immersa in un anticipo d'autunno.

Un funerale semplice, senza ceri, né fiori, come egli aveva voluto. Precedeva il feretro, con il gonfalone del Comune di Busseto, un tricolore sabaudo. In chiesa la cassa è stata deposta a terra, davanti all'altare, vicino alla panca dove, stretti nel loro composto dolore, erano i figlio Alberto e Carlotta. La signora Ennia era rimasta a casa, distrutta dalle veglie. La chiesetta di Roncole era ben nota a Guareschi: vi si recava spesso per sentire suonare l'organo, lo stesso strumento sul quale aveva suonato Verdi, il genio tutelare di questi luoghi. Ed è stato appunto ricordando ciò che il parroco Don Rossi, nel mentre si levavano solenni e meste le note della verdiana Messa da requiem, ha letto un breve brano dello scrittore che ricordava gli anni della sua infanzia. La messa è stata recitata in latino, seguendo un altro suo desiderio.

Così, dunque, stamane è stato sepolto Giovannino  Guareschi in una fossa di terra nel piccolo cimitero di Roncole. La terza tomba entrando, sulla sinistra. Una cerimonia breve e modesta per un uomo che per tutta la sua non lunga vita aveva sempre fuggito i fasti e le pompe. Benché popolare quanto nessun altro scrittore, si era sempre rifiutato di mettersi in mostra. “Non mi va di stare in vetrina”, soleva dire burbero. Anche al ristorante che aveva impiantato al centro del paese, non appena si accorgeva che la gente manifestava verso di lui più interesse del dovuto, s'infilava lesto nella “Bianchina” per tornarsene in villa. 

“Non era un orso – ci dice Don Aldolfo Rossi, il parroco di Roncole che non pochi sogliono definire “il più Don Camillo dei preti della Bassa” -  io che lo conoscevo bene, perché mi onorava della sua amicizia, posso dire che dietro a quella sua aria burbera, si nascondeva una grande modestia; era il modo di difendersi di un timido, semmai”.

Don Rossi che è piacentino essendo nato a Monticelli, per otto anni è stato una delle poche persone ammesse alle confidenze di Guareschi. Il quale di solito sfuggiva le amicizie, e se proprio vi era costretto, faceva buon viso purché le visite fossero brevi. Per questo non andava mai al ristorante alla domenica; e negli altri giorni, quando qualche cliente riusciva ad incastrarlo, sorrideva a denti stretti, scarabocchiava il suo ben noto profilo sul menù, ma dopo qualche stirato sorriso si scusava per eclissarsi. Amava, invece, discutere con i vecchi contadini, anche perché amava considerarsi uno di loro. “La differenza è che io coltivo parole, non terra”, soleva dire nel suo bel dialetto.

“Quando, arrivai qui otto anni fa – racconta Don Rossi, un prete sanguigno e cordiale, con il quale si discute volentieri – mi trovai Guareschi in canonica. Era venuto per vedere certi mobili di cui il vecchio parroco mio predecessore voleva disfarsi. Gli piacquero, e subito mi disse: “Quanto vuole per questi tarli?” Risposi che ci avrei pensato, ma che intanto se li portasse via. Sa cosa gli chiesi in cambio? Un'edizione di tutti i suoi libri con l'autografo”.

Don Rossi si alza, apre uno scaffale e ci mostra alcuni libri. Ne prendiamo uno a caso, Don Camillo.  All'interno c'è questa dedica: “A Don Adolfo Rossi con molta stima, Guareschi”. La parola molta è però come cancellata. Di fianco c'è un asterisco. E in basso, più in piccolo, c'è scritta la nota: ”E' bene essere prudenti....”.

Un vero amico, continua Don Rossi, anche se negli ultimi anni era diventato sempre più triste, più cupo. ”A volte dopo avere letto un suo articolo gli dicevo se mi era piaciuto o meno. Quando mostravo qualche riserva, subito mi chiedeva il perché, che cosa non andava, voleva discuterne. Una volta che gli ho detto “Sa che cos'è Guareschi, mi sembra stia diventando vecchio”. “Ad ghe propria razon, atzident!” mi ha risposto sbottando, picchiandosi un'enorme pacca sulla coscia. 

“Alcune settimane fa – continua Don Rossi – era appena tornato dalla clinica, e l'ho incontrato una sera, appena dopo che trasmettessero alla tv un suo film di Don Camillo, il secondo, che era quello che gli piaceva di più. Lui se l'era visto in villa. Gli feci i complimenti e lui quasi si commosse. Del resto una sua pellicola di Don Camillo (quella diretta da Duvivier) me l'ha regalata per il mio cinemino parrocchiale. E anni fa, una sera, l'abbiamo proiettata davanti a tutto il paese, e lui sedeva in prima fila con tutta la famiglia. Non l'ho più visto così contento”. Negli ultimi tempi invece, era cambiato. Il suo stato di salute lo aveva intristito, quasi svuotato. Non lavorava quasi più. 

Un ricordo giovanile di Guareschi ce lo ha fatto un parroco di Genova venuto qui per i funerali, Don Onorio Canepa, con il quale lo scrittore stette i due anni trascorsi nel campo di concentramento in Germania. “Ha fatto tanto bene lassù, sapesse – dice Don Canepa – girava da una baracca all'altra con i suoi baffoni a leggerci i suoi raccontini, per tenerci allegri. Era generoso, e se poteva aiutava gli altri prigionieri, instancabilmente. Tornammo insieme dalla Germania, il 3 ottobre del 1945. 

Sullo stesso vagone, e mi ricordo come ora che lui aveva trovato una cassetta, sulla quale ci si sedeva a turno. Lo lasciai, allora, e proprio questo anno contavo di invitarlo per un raduno di noi ex reduci, e invece....”. Si asciuga gli occhi, commosso. Si avvicina un signore alto, la chioma candida e gli occhiali scuri. E' l'Ing. Enzo Ferrari, quello delle automobili. “Era un suo amico”. Ci dice Don Rossi, affrettandosi ad andargli incontro. Ferrari rimarrà per tutto il tempo del funerale, a testa nuda, sotto la pioggia.

“Sa che cosa mi ha detto?” ci dice Don Rossi poco dopo. E racconta che Guareschi anni fa andò a Maranello invitato da Ferrari. Provò alcune vetture e sembrò entusiasta. Poi alla fine gli disse:”Ah, par bela l'è bela, ma sal cosa a digg? : cas'la tegna por lu quel diavol lì ”. E saltò sulla scassata “Topolino” che aveva a quel tempo, dandoci dentro col gas.


Gianni Manstretta

Il funerale di Guareschi raccontato da un grande cronista piacentino

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