Barbiellini il fascista “indipendente": dagli scontri con “l’apparato” alla nomina a podestà
Dal 1922 alla morte prematura in guerra (medaglia d’oro al valor militare), Barbiellini Amidei finisce molte volte “dalla polvere all’altare”
Personalità vulcanica, figura complessa, “don Chisciotte (come lo hanno definito Achilli e Molinaroli nel loro libro “Piacenza in camicia nera”) del fascismo perduto, insomma un idealista che non cedeva a compromessi, tanto che per questa idea morirà. Podestà amato anche dal popolo, verso il quale riservò tutte le attenzioni di buon amministratore. Insomma non è certo semplice racchiudere una vita così intensa in poche righe, ma noi ci atterremo soprattutto, come sempre, a ciò che ha rappresentato per Piacenza e per la gente umile.
A questo proposito le testimonianze degli anziani riportate soprattutto da Pantaleoni, sono esemplificative, così come quasi commovente è la sua dichiarazione, riportata dal Molinari, ma confermata sempre anche a me negli anni in cui ho collaborato con lui iniziando la mia attività giornalistica, soprattutto nella ricerca storica in biblioteca e per le testimonianze locali. Ne emergeva con nitidezza la sua attenzione verso i più deboli, donne, poveri, bambini ed anziani, un anelito cui non era certamente estraneo il suo forte sentire religioso.
Dopo l’autunno caldo del 1920, entrò in scena Bernardo Barbiellini: i suoi giovani 24 anni non gli impediscono di primeggiare su tutti, grazie all’attivismo frenetico, alla prontezza dialettica, alla dedizione totale e disinteressata “cui si associava – commentava il Molinari- il fascino fisico, cui sembra non fosse insensibile la stessa figlia del Duce Edda, che lui protesse (come anche gli altri figli), dopo il delitto Matteotti”.
Nel febbraio del ’21 dirige il settimanale la “Scure” che l’anno successivo assume periodicità quotidiana e nel ’27 assorbe “Libertà” per rimanere l’unico quotidiano nel Ventennio, salvo qualche breve parentesi. Ed è una pubblicazione sempre “contro”! Contro i socialisti “spesso più ricchi e filistei dei pescecani borghesi”, contro le “strumentalizzazioni religiose del partito popolare, contro i sindacalisti asserviti alla politica invece che al bene operaio, contro gli stessi fascisti che hanno deviato dalla retta strada”. Insomma un fascista senza partito.
Bersaglio prediletto dei suoi strali, è Angelo Faggi che quando diventa onorevole, venne denominato “il disonorevole Scara-Faggi, responsabile morale dell’omicidio di alcuni fascisti; i socialisti devono essere doverosamente manganellati perché gettano la nazione nel caos, sono i ladri delle pubbliche amministrazioni, vivono da nababbi e ricchi borghesi, non amano il proletariato; nel paradiso sovietico si muore di fame.
Di fronte a questi il fascismo non deve diventare partito, ma rimanere movimento”. Ma ce n’è anche per i Popolari (ed il Nuovo Giornale), rei di voler “resuscitare uno Stato teocratico, quando invece è laico” e ce n’è anche per i “suoi camerati” che devono interessarsi maggiormente alle famiglie povere.
“Questo Robespierre giustizialista - ribadisce Molinari - è focoso quanto libero; ha percepito la forza dei mass-media, usa le parole come proiettili; le sue campagne giornalistiche- ricorda lo storico- si trasformano però sovente anche in spedizioni punitive; e non è tenero neppure coi fascisti di cui chiede l’epurazione degli opportunisti, dei vili, degli imbroglioni, degli auto-mutilati che si proclamano eroi di guerra. Salva solo Mussolini che però si circonda di uomini incapaci”.
Dal 1922 alla morte prematura in guerra (medaglia d’oro al valor militare), Barbiellini finisce molte volte “dalla polvere all’altare”. Nel 1923 presenta clamorose dimissioni dalle cariche del fascismo locale e non le ritira “se non dopo avere ottenuto da Mussolini in persona l’assicurazione che i problemi economici di Piacenza non subiranno più i ritardi della tardigrada burocrazia”. Ed ancora: il Direttorio Nazionale dovrà dare garanzia circa la soluzione dei problemi provinciali quali i Consorzi irrigui, l’allacciamento tranviario tra città e le sue cinque valli e la retta amministrazione delle Opere pie.
Rientrato a Piacenza con pieni poteri, accentua la sua linea populista, la sua attività realizzatrice, contro le pastoie burocratiche; scontri frontali anche con alcuni grandi agricoltori; inizia in questo periodo quella che Molinari definisce “la sua spregiudicata, costruttiva ed insieme distruttiva politica urbanistica per bonificare la città ed attuare un piano razionale. Abbatte nottetempo, con l’aiuto di numerosi giovani, la vecchia e decrepita chiesa di S. Salvatore, mette mano alla ristrutturazione dell’Ospedale civile”.
Un manipolo di agrari, denominati “la Vandea” riesce ad ottenere la sua testa e lo fa espellere dal partito nell’autunno del 1924 fino al marzo 1925, nonostante sia da poco stato eletto deputato e la Camera concede l’autorizzazione a procedere. Gli avversari dicono che “fa il fascista a Roma ed il socialista a Piacenza”, ma anche in questo caso Barbiellini ha la meglio e nei primi mesi del ’27 diventa Podestà di Piacenza.
“Il suo ritmo di lavoro - ricorda Molinari - sarebbe incredibile se non fosse documentata dalla colossale massa di materiale esistente nell’archivio di Stato di Piacenza. La sua agenda è fitta di impegni. In mattinata riceve il pubblico: il disoccupato in cerca di lavoro, la vedova di guerra in attesa di pensione, l’inquilino sfrattato, la ragazza- madre, il genialoide che vuole un appoggio per ottenere un brevetto. Impartisce ordine all’usciere di dare la precedenza alla povera gente, che non ha tempo da perdere, lasciando all’ultimo posto la gentildonna che viene ad invitarlo ad un thè danzante.
In genere cerca di far pendere la bilancia a favore dell’indigente: l’inquilino sfrattato ha sempre ragione; infine egli interviene con immediatezza operativa, con furia rabbiosa ed ostinata di chi vuole pervenire a dei risultati. “Un ras di provincia con le scarpe pesanti capaci di calpestare le ingiustizie”.
Se la mattina è dedicata alle udienze, il pomeriggio è diviso tra il lavoro burocratico e gli interventi a vario livello. Una visita all’ospedale di cui è presidente e dove ha costruito vari padiglioni nuovi. Un sopralluogo in Val Tidone alla diga di Nibbiano che raggiunge il traguardo grazie al suo attivismo frenetico. Un viaggio nella campagna di Chiaravalle della Colomba dove ha trasferito i suoi “pupilli della patria ed ha organizzato la scuola d’Arte e mestieri, mentre per le orfane di guerra ha potenziato l’orfanatrofio femminile di via Scalabrini che ha migliorato immettendovi le “sue suore”, le figlie di S. Anna e si interessa personalmente di ogni singola bambina collocandola nella scuola più adatta.
E a proposito della sua dedizione alla gioventù, chiudiamo questa puntata con la testimonianza del giornalista Gaetano Pantaleoni (con cui ho condiviso le fatiche per scrivere la Piacenza popolaresca delle vecchie borgate vol. 1° e vol. 2°) e, citata dal Molinari, del sen. Giovanni Spezia con i fratelli educato nell’Abbazia di Chiaravalle.
Pantaleoni ricordava che era ospitato a San Lazzaro con altri orfani di guerra o di famiglie indigenti. Era orfano di padre e la madre era stata brutalizzata dai fascisti; Barbiellini che odiava tutti i soprusi, anche quelli compiuti dai suoi stessi camerati, lo aveva preso in predilezione. Così nella sua veste di presidente degli Ospizi civili si adoperò per trovare una zona salubre e verdissima per i “suoi” ragazzi “e- ricordava Pantaleoni - ci sembrò, con questo trasloco, di passare dal purgatorio al paradiso”.
Barbiellini vi si recava regolarmente ed interrogava i ragazzi su come si trovavano, attentissimo alla qualità del vitto, tanto che, una volta, venuto a conoscenza che non tutto era di qualità, minacciò di licenziare subito il direttore Baffi, un ex agricoltore che aveva perso tutto nella piena devastatrice del Po ed aveva trovato posto a Chiaravalle. “Per noi - chiosava Pantaleoni - un secondo padre”.
Dello stesso tenore i ricordi di Carlo Spezia (i fratelli Giacomo ed il senatore Giovanni erano più giovani):” Conservo- raccontava- un ricordo bellissimo di Barbiellini per la sua umanità, la sua capacità di ascoltarci, per la concretezza dei suoi interventi. Ci chiedeva mille cose: sul vitto, sul vestito, sul trattamento e provvedeva con immediatezza alla soluzione dei problemi, senza ritardi burocratici. Quasi mai in camicia nera; uomo di spirito, terribile con i prepotenti, ma intelligentemente umorista. Davanti a lui anche i fascisti tremavano perché lo sentivano superiore alle parti, non legato alle fazioni”.
Ed ancora la testimonianza del giornalista Rino Casaroli a proposito dei trascorsi a Pietra Ligure negli Istituti S. Corona. Scontenti del vitto serale, scrissero di nascosto una lettera al Podestà di Piacenza. Dopo otto giorni si presentò una mattina e dopo una furibonda lite con i cuochi, il vitto migliorò subito. Seguono numerose altre testimonianze orali che attestano tutta la sua sollecitudine per i ragazzi poveri piacentini.
(segue)