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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Barcaioli, sabbiaioli e la “dinastia” dei Bori: storie di mestieri che non esistono più

Il capostipite della secolare schiatta di sabbiaioli e pescatori della famiglia Bori fu “Biasèi”, titolare, nei primi del ‘900, di una delle maggiori imprese che operavano sul fiume: cinque barche che spostavano sabbia e ghiaia dall'isolotto Maggi alla riva piacentina, nei pressi della Nino Bixio, dove attendevano i carrettieri per il trasporto

Il capostipite (è difficile risalire maggiormente nel passato…) della secolare schiatta di sabbiaioli e pescatori della famiglia Bori, fu “Biasèi”, titolare, nei primi del ‘900, di una delle maggiori imprese che operavano sul fiume: cinque barche che spostavano sabbia e ghiaia dall'isolotto Maggi alla riva piacentina, nei pressi della Nino Bixio, dove attendevano i carrettieri per il trasporto. La memoria di Biasèi si perde nella notte dei tempi, ma le testimonianze rammentano di una fibra d’uomo scarna e vigorosa, come radice di salice, un portentoso fiumarolo nostrano che visse l’intera esistenza sul Po di cui conosceva gli ardui segreti, le subdole insidie, “i tesori” dell’ormai leggendaria fauna ittica scomparsa: pesci gatto, cavedani, anguille e gli storioni che risalivano dal mare, prima della costruzione della diga di Isola Serafini.

Biasèi fu ai suoi tempi un simbolo, quasi un archetipo dell’antropologia padana: impersonava in carne ed ossa le stremanti fatiche, gli ardimenti, i rischi, i pericoli e le asprezze della vita fluviale. Suo figlio Palèi seguì le orme del genitore, ne accolse e praticò i saggi ammaestramenti e le ardue risorse del mestiere.

Cominciò sul Po all’età di nove anni: era un ragazzetto segalino, affilato, aduso e vispo e sgusciante come un’anguilla. Sapeva già nuotare, remare, reggere con incredibile prestanza fisica le stanghe della pesante barella per il carico e lo scarico della sabbia e della ghiaia estratte dall’Isolotto, quindi collocate nei pressi del vecchio chalet della “Nino” dove il materiale veniva selezionato in forma rudimentale per gli usi edilizi. Un lavoro durissimo per tonnellate di sabbia, ghiaia e legname strappate al fiume con la fatica delle braccia.

La legna si raccoglieva soprattutto d'inverno, senza pagare dazio a nessuno, anzi era un’attività ben acconsentita perché si teneva pulito il fiume. In estate invece, quando l’Isolotto Maggi diventava la spiaggia dei piacentini, prima Palèi, poi i figli Luigi e Carlo, che di fatto poi rimase l’ultimo dei mitici barcaioli locali, trasportavano i cittadini. Soprattutto nei fine settimana si conducevano passeggeri ininterrottamente  e l’isola diventava la “Rimini” dei piacentini, compresi gli ambulanti per le vettovaglie di chi non si era portato nulla da casa. Notissimo il mitico " Belu" che gestiva il chiosco delle bevande tenute fresche con i blocchi di ghiaccio fabbricati al macello; oppure le stecche si grattavano e si preparavano, con una spruzzata di sciroppo, le dissetanti granatine. “Belu” poi nel suo amato fiume ci lasciò la vita pescando; affondò per i lunghi stivali che non riuscì a sfilarsi tempestivamente.

Se in estate per combattere il caldo bastava gettarsi nel fiume e rinfrescarsi, in inverno, stagione in cui il lavoro proseguiva, la fatica si faceva doppia perché si

continuava ad estrarre ghiaia, ma si tagliavano anche i salici da vendere ai viticoltori che li usavano come pali di sostegno nelle vigne.

Palèi (e poi i figli) remando con stile ritmato e vigoroso, proseguiva la sua giornata, dall’alba al tramonto (per loro niente otto ore!), senza dare mai segni di cedimento; il pasto sovente si consumava in barca: un frutto, un po’ di pane e per dissetarsi l’acqua del Po che allora era limpidissima, soprattutto nei “surtùm” che affioravano scavando tra la sabbia.

La traversata era sempre a remi e la navigazione veniva supportata da cavalli o asini che tiravano dalla riva, ma sovente anche dagli uomini che proseguivano scalzi perché le scarpe appesantivano il cammino;indossavano solo camicioni lunghi oltre le ginocchia.

Palèi Bori questo mestiere lo svolse per sessant’anni, interrotto solo dalla guerra, ma al suo posto subentrò la moglie Giuseppina Bianchi, una vera “rasdùra” con i controfiocchi che prese le redini dell’azienda, con il lavoro e gli uomini (circa una ventina) da organizzare. PalèBorisenior-2

Certo Palèi avrebbe potuto scrivere uno splendido libro sul Po, sulle pescate all’alba nella stagione primaverile, quando lo scenario sconfinato ed ubertoso del Po si rischiara alle prime luci, lasciando intravedere le boschine di pioppi e salici, fino a quando appare la grande sfera del sole. I Bori approdavano allora alla sponda piacentina, dopo aver trascorso la nottata manovrando la “ligursa”, il tramaglio, la “strùsa”, lo “spalavèr”, tipici attrezzi dei pescatori di rango, esplorando e rastrellando i gorghi enigmatici della corrente.

Palèi raccontava anche che durante la seconda guerra mondiale, quand’era di servizio alla zona Finarda, una magana venne colpita da un mitragliamento aereo a bassissima quota. Nella vecchia foto lo osserviamo con i rustici indumenti del mestiere: cappello di paglia, canottiera sotto il gilè, le brache-mutande di ruvida stoffa sorrette da una fascia di cotonina nera, mentre spinge al largo la magana, con il suo ritmo placido ed ancora possente, per approdare, sfruttando la corrente, all’Isolotto Maggi.PalèiPo3-2

La famiglia abitava in via San Bartolomeo, di fronte alla fabbrica di bottoni “Galletto” dove risiedeva anche mio padre; in più occasioni mi ricordava che i Bori  conservavano le anguille pescate in Po nel vicino Fodesta, per poi venderle quando il prezzo era più alto, al mercato coperto. Un ulteriore modo per arrotondare gli incassi della numerosa famiglia.

Quando subentrò Carletto, con il papà, nel primissimo dopoguerra, le fatiche diminuirono almeno un poco. Si sistemavano vecchi camion militari direttamente sulle barche e si trasportavamo sull'isolotto a caricare ghiaia, o sabbia, ma con le ruspe. E nell’angolo di terra tra la strada e la Nino, Carletto è rimasto fino a non molti anni fa “attaccato” al suo Po come un’ostrica. 

Fu lui, ma soprattutto il padre Palèi (da cui prese il soprannome), che rimane il simbolo nella memorabile storia di lavoro, di fatiche e rischi inenarrabili, destinato ad entrare, come tutti gli uomini del Po, in una leggenda non scritta, quella di età trascorse, lo specchio misterioso di un passato sfuggito via.

Ma nelle giornate di nebbia, nel silenzio ovattato, a tratti sembra ancora di risentire improvvisamente risuonare gli antichi richiami degli uomini del fiume, quel “gran padre Eridano” che abbiamo quasi dimenticato, ma è sempre lì a scorrere per i piacentini, a ricordare che il loro retroterra culturale e sociale è rappresentato anche dalla vita che si è svolta sulle sue sponde.

Barcaioli, sabbiaioli e la “dinastia” dei Bori: storie di mestieri che non esistono più

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