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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Cantarana ed il suo palcoscenico: la “Curtàssa”, altro “luogo della memoria”

Cantarana, dalla significativa etimologia. Un luogo povero, anzi misero, in cui la sopravvivenza e l’arte di arrangiarsi era dura, ma necessaria, quotidianità, ma nella quale mai vennero meno la dignità personale ed il senso di solidarietà di buon vicinato

Nel nostro blog ci siamo occupati, grazie all’accurata ricerca che ci ha trasmesso il dottor Luca Incerti, di un’eccellenza educativa per la nostra città: il Collegio San Vincenzo che ha forgiato cultura e professionalità di intere generazioni. E’ stato quasi un “volo pindarico”, elevato, ma dopo “l’idéal”, è ora di rituffarci nello “spleen”, in un humus più squisitamente popolaresco, che è poi l’anima vera ed autentica del popolo piacentino.

Vi ritorniamo esaminando una parte di borgata di cui abbiamo già trattato, ma non approfondito, un caleidoscopico palcoscenico di strada, cantarana curtassa-2con un epicentro a lungo fissato nella memoria dei più anziani per gli innumerevoli personaggi che vi gravitarono e che contraddistinsero, con la loro presenza, la vita di quella contrada. Stiamo parlando di Cantarana, dalla significativa etimologia; un luogo povero, anzi misero, in cui la sopravvivenza e l’arte di arrangiarsi era dura, ma necessaria, quotidianità, ma nella quale mai vennero meno la dignità personale ed il senso di solidarietà di buon vicinato.

In Cantarana le povere case si stringevano una all’altra e dagli striminziti orti retrostanti, si ricavava l’indispensabile per la zuppa quotidiana. Il Po integrava la dieta col pesce fresco; nei primi del Novecento aumentò un po’ la possibilità di lavoro ed anche Cantarana potè annoverare, tra i suoi abitanti, carrettieri, fornaciai, conciatori, lattonieri, ciabattini, bottonai, operai cotonieri. In Cantarana non c’erano né botteghe né negozi; chi aveva un impiego fisso era considerato un fortunato; la maggior parte si prestava a lavori umili e saltuari.

Certo poi venne il “Costanzo Ciano”, inaugurato in pompa magna il 28 ottobre 1939, a proporre un’immagine diversa del quartiere; sicuramente in parte svanì una Piacenza romantica, delle vecchie borgate, ma certamente i quattordici nuovi edifici, capaci di ospitare ben trecento famiglie, apparvero come un traguardo importante nel risanamento urbano.

Al numero 100 di via San Bartolomeo (l’ho più volte raccontato) nacque mio padre e la nonna Angela mi rammentava che andava a rifornirsi di vino presso l’osteria ‘dla Grasiusa, proprio all’angolo con quello straordinario microcosmo che fu Cantarana, con l’epico centro ‘dla Curtàssa. Una borgata davvero ad un “tiro di schioppo” dal Po, dove molto tempo fa le rane c’erano davvero e vi cantavano di notte a squarciagola, tanto che poche strade cittadine rispettano come questa l’originario significato toponomastico, non ad esempio, come la Muntà di Ratt, così chiamata non perché vi scorrazzassero i topi, ma perché, nella parte più elevata della strada vi dimorò l’antico ceppo nobiliare dei Ratti. 

Non occorre dunque l’ausilio di speciali ricerche erudite per verificare come questa zona del suburbio storico fosse un tempo assediata da cantacurta Cilalèi giovane-2paludi, stagni, fossati, rivi acquitrinosi, peculiarità essenziali dell’ecologia sub-fluviale di cui il gracidio delle rane fu specificità canora.

Sorta su un primitivo agglomerato rurale, Cantarana venne via via enucleandosi sul tracciato parallelo a via Campagna, fino ad assumere i connotati edilizi di significativa contrada inserita, tramite i suoi spontanei rustici (vicoli, cantoni, stradelle ecc), come lenta aggregazione periferica. Per secoli Cantarana, alla stregua delle antiche borgate racchiuse nei confini dell’entro mura, visse una dimensione tutta sua, senza strade principali, in fregio ai due poli di primaria attività religiosa e comunitaria intorno a cui fu indotta a gravitare: i cinquecenteschi templi di S. Sepolcro e S. Maria di Campagna.

Poi però alla fine degli anni ’30 la mano del regime si abbatté “sulle luride catapecchie” (come vennero definite dalla stampa locale), facendo sorgere in loro vece, sull’immensa area verde retrostante (il cosiddetto Ort dal Mut che tale non era, perché personaggio loquace che vendeva “insàlata e gurgnalèin par la sìra e la matèin), l’attuale quartiere Costanzo Ciano, uno dei primi esempi di quartiere popolare pianificato con criteri schematici, in una uniformità piatta e livellatrice, ma sicuramente più igienica.

Forse anche per questo, nella memoria storica più popolare, il Ciano fece rimpiangere l’umile edilizia dei caseggiati pittoreschi aperti ed articolati dove, al di là della loro massa frontale, c’era l’arioso verde degli orticelli, dei verzieri gremiti di motivi orto- botanici, di vivai delle arborescenze in libertà. Era insomma Cantarana uno scrigno di rusticane verzure, assai più di via S. Bartolomeo e dintorni.

Non c’era infatti casupola disadorna o fatiscente che non avesse alle spalle (retaggio degli orti medievale, terra non sottoposta a vincoli feudali e scampo essenziale alla fame), una seppur minuscola cornice di orto, un pergolato di fronde e tralci, la tipica edicola di pozzo in vetusto laterizio, cespi di verbena. Ed ancora lo stagnetto domestico in cui guazzavano anatre ed oche, la piccionaia fatta di assicine e steccati Ogni tanto, quando ne aveva voglia, il Po usciva a “fare due passi” e provvedeva a “ripulire” il tutto; poi con santa pazienza, si rinnovavano gli orti, magari fecondati dal benefico limo, non ancora inquinato da metalli pesanti ed altre amenità.

Non c’era orto che non avesse un fico frondoso, un susino o un albicocco, “osservati speciali” per salvaguardarli dalle grinfie dei “muclòn” al tempo della maturazione. Al centro la “Curtàssa”, ossia nell’accezione popolaresca, “il cortilaccio”, fulcro d’azione dello spettacolo contradaiolo; nei bui meandri notturni, non scintillavano lame di pugnali, né spari di pistole, ne c’erano “lucciole vagabonde”, ma quelle vere che scintillavano ovunque. Ne parleremo.

Centro dell’azione comunitaria era l’osteria ‘dla Grasiusa all’angolo con via S. Bartolomeo (oggi l’antico ingresso è murato ndr.), tipica locanda di quei tempi. La titolare, restituiva nel nomignolo che le veniva dalla prima giovinezza, l’immagine di una popolana soffusa di candida grazia fisica e mentale. A tener testa a tutta quella clientela, talora con molti attaccabrighe, con una mentalità ancorata a futili rivalità rionali, c’era lei, la Grasiusa, l’ormai matura signora fragile e gentile che, con la schietta favella vernacola, dissuadeva anche i contendenti più sfegatati, riportandoli ad un più equo rapporto di tolleranza.

In fondo lei era sempre in credito con certi clienti stracarichi di “tinèi”, di debiti appunto. Carrettieri, legnaioli, ortolani, pescatori, rigattieri, manovali, sulèi (addetti alla posa dei ciottoli stradali) costituivano l’humus clientelare della Grasiùsa. Non le bottonaie che lavorano da Capra, perché le donne non entravano all’osteria se non per acquistare il vino da consumare in casa (almeno così mi riferiva la nonna Angela). Nel cortile dell’osteria, aperto su un piccolo scenario di pampini, fogliame di fichi e gloria di rosse amarene, c’era, un piccolissimo gioco delle bocce.

Ai margini del Fodesta c’era l’abituro di Cialèi, boscaiolo e pescatore rotto ai disagi, alle traversie del fiume e delle sue rive scabrose. Gran bel tipo Cialèi:candidi baffi sul volto cotto e rugoso, occhietti da furetto, sombrero di paglia, maglietta a righe, foggia “società canottieri”, brache di fustagno rimboccate sulle rotule delle ginocchia. Spesso si accovacciava sul portone di casa a fumare la pipa, con quell’aria di arguzia ammiccante che hanno i popolani provati dalle rudi fatiche.

Murandèi invece risiedeva in una stamberga dai mattoni sanguigni, sbrecciati e corrosi dal tempo; i suoi mottetti bacchici (era perennemente in cimbali…) gridati nella solitudine della contrada si alternavano al gracidare notturno delle rane, ma nessuno ci badava più di tanto.

C’era anche la Cantarana dedita ai “bassi servizi comunitari”, ovvero Tacòn, Tòla e Spùsu, la “ronda notturna” addetta allo spurgo dei pozzi neri. Partivano di notte, con il carretto sgangherato, i secchi, le corde, la lampada ad acetilene ed andavano a “bonificare”, dicevano, i quartieri alti della città. Insomma il neorealismo di Rossellini avrebbe trovato soggetti a iosa per i suoi film.

Nella prossima puntata proseguiremo in questa curiosa e sapida rassegna, con particolare riferimento anche alla Curtàssa, palcoscenico della contrada.

Cantarana ed il suo palcoscenico: la “Curtàssa”, altro “luogo della memoria”

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