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Venerdì, 29 Marzo 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Uno sguardo indiscreto nelle “case chiuse” della vecchia Piacenza (Seconda parte)

In via Lampugnani (vicolo che collega via Mazzini con via Calzolai) si trovava, ma solo fino al 1940, il casino detto di "spasacamèi" la cui etimologia forse intendeva il fatto che i frequentatori non disponessero di molte risorse

Uno sguardo indiscreto nelle “case chiuse” della vecchia Piacenza (Seconda parte, qui potete leggere la prima parte)

Spesso queste donne dai nomi fasulli (Lola, Rosita, Leda,Tripolina) che sfilavano tra gli sguardi lubrici dei frequentatori dispensando sguardi “fulminanti” e battute salaci sulla mascolinità dei clienti, erano persone che avevano sperimentato tristi storie familiari alle spalle, che avevano scelto il meretricio per sfuggire a condizioni di vita spesso tragiche. Molte di loro probabilmente avrebbero preferito essere come le “italiche madri” propugnate dalla propaganda che incentivava l’incremento della razza, avere un marito, attendere alle faccende domestiche ed invece erano lì ad offrire il loro corpo per un fugace piacere.

I casini cittadini generalmente aprivano i battenti alle due del pomeriggio e chiudevano inderogabilmente alla mezzanotte, altrimenti la ronda multava per il ritardo. La mattina (se non capitava qualche particolare cliente), mentre si procedeva alle pulizie ed alla preparazione del pasto che le donne consumavano insieme nella cucina comune, le prostitute uscivano a gruppetti, per fare una passeggiata e prendere un po’ d’aria o per fare qualche acquisto, ma nessun uomo che era stato al casino magari la sera prima, faceva mostra di riconoscerle, soprattutto se al loro fianco vi era la legittima consorte.

Nella zona di Sant'Agnese le case chiuse erano due, la già citata “Lina” e l’Argentina ubicata in via Filanda, con due ingressi: quello da 7 lire era ai numeri civici 26 e 28. Dalla porta si accedeva ad un salone di attesa arredato con monastiche panche e qualche dipinto alle pareti raffigurante donne discinte. Di fianco la cucina ed al primo piano un lungo corridoio su cui si affacciavano sette stanze. Al 22 della medesima strada, appena svoltato, si trovava l’ingresso di chi poteva spendere solo 5 lire. Naturalmente la bellezza muliebre era qualitativamente diversa, anche se i più giovani dal portafoglio sempre piuttosto sfornito, si accontentavano della prestazione della Leda, della Rosetta e della Lola.

In via Lampugnani (vicolo che collega via Mazzini con via Calzolai) si trovava, ma solo fino al 1940, il casino detto di “spasacamèi” la cui etimologia forse intendeva il fatto che i frequentatori non disponessero di molte risorse. Anche questa casa si serviva di due ingressi: quello da dieci lire al n° 6 a pianterreno, e quello da 5 lire al n° 8 a cui si accedeva tramite una ripida scala che conduceva nelle camere situate al 2° piano. Negli anni ’30 furoreggiava la Kitti, una slava dai capelli biondo-platino e, si diceva, dallo sguardo assassino.

casini2-2Infine dobbiamo menzionare la “casa” di via Montani frequentata particolarmente da militari di leva, numerosissimi nella nostra città e di stanza nelle vicine caserme di via Castello e viale Malta. Anche qui due ingressi diversificati: al n° 5 quello da dieci lire che immetteva in una piccola sala d’attesa arredata con qualche sgangherato divanetto, quindi un piccolo corridoio e tre camere al piano terra e due a quello superiore. Al n° 7 si entrava (tariffa 5 lire) salendo una ripida scala e le stanze erano ubicate al secondo piano.

Certamente per descrivere questi ambienti sarebbe occorsa la penna di Guy de Maupassant celebre per certe sue descrizioni di “maison de plaisir”, ma ci siamo dovuti accontentare ancora della (a volte) labile testimonianza di alcuni anziani frequentatori che mostravano pure una certa reticenza nel parlarne, un contenuto pudore quasi a non voler ammettere di averle, come tutti, frequentate.

Indubbiamente il ricordo di questi ghetti di emarginazione per tante donne forse non è piacevole da rivangare, può essere inteso come uno spregio alla loro dignità e femminilità, ad un ruolo pienamente paritetico nella società, ma come per tutto ciò che fa parte del passato, si tende ad obnubilarne gli aspetti spiacevoli ed a mitizzare nella patina del ricordo, forse anche perché questi luoghi ora così lontani dalla quotidianità, racchiudono il mito della prima pubertà, dell’incontro, anche se a volte un po’ traumatico e volgare, con l’altro sesso.

Uno sguardo indiscreto nelle “case chiuse” della vecchia Piacenza (Seconda parte)

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