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Venerdì, 19 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Francesco Jelmoni, il “taschino” per i poveri

Francesco Jelmoni, è stato senza tema di smentite uno tra i più apprezzati maestri decoratori della Piacenza anni ‘20 e ’30

Francesco Jelmoni, è stato senza tema di smentite uno tra i più apprezzati maestri decoratori della Piacenza anni ‘20 e ’30, uno degli ultimi artefici che, sulla scia di un’antica tradizione, coltivarono l’impegno ornamentale come dedizione al “mestiere dell’arte”, al culto della grazie e della dignità del bello.

Jelmoni secondo le testimonianze dell’epoca (attingiamo in parte ancora una volta a Rebecchi unitamente ad altre testimonianze scritte) fu, come del resto molti piacentini del tempo, schietta figura d’uomo, di genuini impulsi altruistici (come avremo modo di verificare), mite, di gentile e quasi pudica socievolezza.

Una di quelle figure popolari che vivendo la prima giovinezza nel clima scapigliato del romanticismo estetico e sociale, trascorsero quasi inavvertitamenteistituto Gazzola-2 l’operosa giornata nella penombra intimistica stagliandosi, loro malgrado, nel crudo controluce della realtà quotidiana. Poi, quasi in sordina scompaiono dallo schermo affollato dell’esistenza, lasciandosi alle spalle un retaggio poco appariscente delle loro pazienti fatiche spese a rendere più decorosa e leggiadra la vita domestica del prossimo, le sue dimore familiari, gli spazi privati e pubblici in cui gli uomini allacciano rapporti di varia socialità, magari in un vano, affannoso conflitto di effimere passioni.

La sua parabola esistenziale ricordava il Rebecchi, fu più intensa che duratura; scomparve infatti nel marzo del 1934 a soli 56 anni, proprio quando aveva raggiunto la pienezza della maturità operativa ed artistica.

L’addestramento alle pratiche di bottega valse a stimolare l’innato talento del giovane Francesco il quale seguì i corsi serali di ornato nel vicino Istituto d’Arte “Gazzola”, sotto la guida del prof. Camillo Guidotti, esperto di stili storici cui fu assegnata la direzione artistica dei lavori di ripristino e restauro di S. Savino, del Duomo, di S. Eufemia ed altre opere di rifacimento di edifici d’epoca medievale.

Quella dei Jelmoni, radicata alla secolare residenza di Molineria S. Nicolò, ad un passo dalla “Mȏnta di Ratt” fu una stirpe di magistrali decoratori ed imbiancatori, come per esempio i Malchiodi che risedevano invece nell’arioso microcosmo di S. Raimondo e zone limitrofe.

La loro ditta primeggiava per versatilità e specializzazione operativa in molti ambienti cittadini, da quelli più umili a quelli di elevata estrazione sociale. Avendo già i requisiti della preparazione professionale, all’età di 15 anni, Francesco fece parte delle maestranze  che decorarono gli atri e le sale della vecchia stazione di Voghera.

Benché non sia possibile ricostruire un “catalogo” neppure approssimativo della ultraquarantennale attività di questo maestro decoratore, grazie alle testimonianze se ne può abbozzare un quadro seppur non esaustivo. Si sapeva per certo che il suo repertorio risultava prevalentemente ispirato ai grandi modelli degli stili storici, soprattutto a quelli dell’età barocca, rococò, neoclassica.

Da alcuni reperti disegnativi, schizzi e bozzetti conservati dal figlio Nino, si rilevava una sorprendente padronanza dei mezzi espressivi, una squisita bravura, anche tecnica, nell’affrontare i più complessi ed ardui temi della decorazione di ampio respiro scenografico- architettonico, del loro svolgimento progettuale.

Il segno a matita o a pennino è di minuziosa delicatezza, di eleganza sicura e spigliata, scevra dal piatto manierismo accademico. Anche alcuni schizzi di figure appena ravvivate dai tocchi acquerellati, sembrano lavori di un pittore con tutte le carte in regola. Ecco perché sia l’architetto Giulio Ulisse Arata, che il pittore Francesco Ghittoni, trovarono in Francesco Jelmoni l’esecutore ed il collaboratore ideale dei rispettivi settori di attività sussidiaria, non sempre marginale e subalterna.

Innumerevoli sono i cicli decorativi che illeggiadriscono atri, sale, pareti, soffitti di palazzi e dimore signorili e borghesi non solo a Piacenza, ma in varie località della nostra provincia e di altri capoluoghi regionali. Citiamo, fra i tanti di cui sarebbe lungo l’elenco, Palazzo fio ruzzi, Palazzo Radini Tedeschi, Cella, Magugliani, Zanardi Landi.

Decorò inoltre la sede della Cassa di Risparmio progettata negli anni ’30 dall’arch. Arata, ornò cappelle di cimiteri, di chiese, sparse un po’ dovunque nel nostro ed in altri territori provinciali, adottando motivi e fregi ornamentali negli stili storici preferiti dalla clientela, meritandosi gli encomi dei committenti anche di difficile contentatura.

Ma c’è una peculiarità che lo rende apprezzato e degno di ricordo, al di là dei meriti professionali (ma allora questi artigiani per loro formazione e manualità erano di fatto anche artisti…) ed è quell’humus popolaresco solidaristico che è sempre stato (oggi molto meno) insito nei piacentini, seppur permeato di radicata discrezionalità.

Tutte le mattine, uscendo dalla sua abitazione in Molineria San Nicolò (in queste zone torneremo con altre puntate), imboccava Cantone Gazzola e si fermava all’angolo del cantone Monte di Pietà dove lo attendeva un povero padre di famiglia con moglie e figli, inabilitato al lavoro da una grave infermità.

Con rituale discrezione gli elargiva una moneta da 10 lire (ai tempi in cui il pane ne costava 3 al kg) che toglieva dall’apposito “taschino”, il “taschino dei poveri” come lui lo definiva. Quel gesto di quotidiana solidarietà umana lo compì per molti anni e con tanta povera gente, ma furono pochi a saperlo, restando riservato alla cerchia familiare. Vecchia Piacenza…

Francesco Jelmoni, il “taschino” per i poveri

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