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Giovedì, 25 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I folli carnevali di una volta a Piacenza

A Carnevale, per un’intera settimana con il culmine del “martedì grasso”, la città “impazziva”. I festeggiamenti carnevaleschi costituivano sotto molti aspetti, una dolce, amabile esplosione di pazzia collettiva che coinvolgeva tutti i ceti sociali

“Panta rei”, tutto scorre ed oggi ci accingiamo ad entrare nel periodo del carnevale quasi senza accorgercene. Una festa che ha ancora un fascino a Venezia, a Viareggio, a Busseto ed in poche altre città italiane, ma ormai quasi ovunque, passa del tutto inosservata. I modi di vita e quindi anche i divertimenti sono radicalmente mutati, ma un tempo, tanti anni fa, non era affatto così e se si escludono gli anni in cui gli eventi bellici mortificavano qualsiasi desiderio di allegrezza, a Carnevale, per un’intera settimana con il culmine del “martedì grasso”, a Piacenza la città “impazziva”, come attestano le numerose testimonianze giornalistiche, nonché quelle che molti anziani anni fa tramandarono a chi oggi più giovane non è.

A quell’epoca, i festeggiamenti carnevaleschi costituivano sotto molti aspetti, una dolce, amabile esplosione di pazzia collettiva che coinvolgeva tutti i ceti sociali, persino la schifiltosa aristocrazia ormai sul viale del tramonto, con incredibile sperpero di mezzi economici, un un’epoca di profondo pauperismo sociale. Da tempo una sopravvenuta seriosità di vita,una forzosa austerità dei costumi, dei comportamenti individuali e collettivi, hanno relegato ai margini della cultura di schietta radice popolaresca, anche nel suo specifico interesse folclorico, la follia carnevalesca, quella del “carpe diem” e del “chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza”. reginemercatoPoliteama-2

I carnevali venivano preparati con accuratezza, con diverse settimane di anticipo ed in quell’occasione anche i più uggiosi “musi lunghi”, persino i più misantropi,  diventavano loro malgrado dei “baccanti”, individui che si improvvisavano fautori di burle e di beffe, accettandole e restituendole, perché il detto “carnevale ogni scherzo vale”funzionava davvero. Come il calendario preannunciava la fatidica ricorrenza, tutto era già pressoché predisposto ed ideato nei suoi contorni generali: temi programmatici, generi di festeggiamenti, sfilate e cortei di gruppi organizzati o autonomi, carri allegorici la cui invenzione era lasciata alla estemporaneità immaginativa degli “addetti ai lavori”; veglioni mascherati con danze e premi di diverso soggetto. Ma il gran premio d’onore, il più ambito, era certamente quello da assegnare alla “Reginetta del mercato” al teatro Municipale. C’erano sempre delle novità, il nuovo Carnevale non si presentava mai nelle forme e nelle usanze di quello già sperimentato negli anni precedenti. L’avvento dei giorni di follia si predisponeva con settimane di anticipo.

Principali artefici erano i sarti, i falegnami, i decoratori, gli arredatori, gli scenografi, i coreografi, pressati dalle richieste di una clientela esigente, con molte pretese, comunque gente di buona borsa la quale pagava in maniera sonante, pronta cassa alla consegna dei manufatti ordinati. Persino i più indigenti, i cosiddetti dasprè, diventavano solerti pagatori e pur di onorare in modo degno il Carnevale, non esitavano ad architettare marchingegni debitori, portando al Monte di Pietà in pegno di garanzia, materassi, lenzuola, abiti, orologi d’argento ed oro, monili, anelli nuziali. Il Monte di Pietà in quei giorni di vigilia rigurgitava di merce d’ogni genere, alla stregua di un grosso emporio.

Non c’era insomma poveraccio che non gareggiasse nella dispendiosa baldoria carnevalesca, con il più danaroso borghese o patrizio d’alto rango economico, indossando lussuosi “domini” e maschere intonate ai più originali, sfarzosi costumi. Questa corsa sfrenata all’acquisto del costume di grande effetto, di eleganza mondana, di grottesca originalità o di raffinata estrosità, raggiungeva sovente il culmine della ricercatezza. In città c’erano due organizzatissime ditte che praticavano il noleggio dei costumi e delle maschere di famosa tradizione nazionale e regionale. Facevano tutte affari d’oro. Alle spese onerose degli allestimenti dei carri mascherati con fantasmagoriche allegorie burlesche, concorrevano in pari misura i committenti riuniti in occasionali sodalizi. Spesso le composizioni strutturali dei carri erano ispirate a soggetti mitologici d’evasione, soprattutto dionisiaci, con coreografie di baccanti raffiguranti le deità del vino e della frutticoltura. Bacco ed il suo seguito (Baccanti, Sileni, Satiri, Ninfe) e persino i grandi dell’Olimpo. Non mancavano i soggetti storici, con raffigurazione di personaggi della Rivoluzione francese.

famigliaVigiòn-2Sorprendere, sbalordire: ecco il fine di simili, gigantesche costruzioni di cartapesta, dominate da un barocchismo esuberante e tronfio, dalle più strane raffigurazioni antropomorfiche, floreali, faunesche. Ciascun carro era dotato di buone scorte di “materiale bellico”, costituito da proiettili di ogni forma e dimensione; ovviamente coriandoli, ma anche castagne secche, arance e mandarini, confetti e cioccolatini destinati alle signore che si affacciavano dai balconi. Insomma una “battaglia” governata dal buon umore, dal brio, dall’allegrezza.

L’itinerario dei carri allegorici a bordo dei quali si erigevano balde compagnie di giovanotti, si svolgeva attraverso le principali vie cittadine: corso Vittorio Emanuele, Corso Garibaldi, Piazza Borgo, via Calzolai, Piazza Cavalli, via XX Settembre, Piazza Duomo, via Roma e viceversa. Centro del raduno era naturalmente Piazza Cavalli. I carri erano trainati da poderosi cavalli a loro volta drappeggiati e mascherati. In Piazza Cavalli, tra una tempesta di coriandoli, si davano convegno carri e maschere a centinaia. Era una frenetica girandola di colori, di grida, di canti, di suoni: gli strumenti più utilizzarti erano chitarra e fisarmonica.

Era l’epoca faceta de ‘l garzon ‘d Maccari, le cui poesie correvano di bocca in bocca, dando un tono burlescamente piacentino alla carnevalata. Quando tutto era pronto, ecco irrompere, tra l’ilarità generale, la numerosa schiera dei Vigiòn, un piccolo esercito di montanari vestiti di velluto verde, cosparsi di bianchi boccoli di neve (con il cotone idrofilo), bastoni, cappelli dell’Appennino, cestini con le uova. L’attenzione si concentrava sull’allegra schiera dei Vigiòn, (di solito radunati verso il Caffè Grande in Largo Battisti; soprattutto uno, Loranzi detto il “Moletta” (ne tratteremo nella prossima puntata dedicata al Carnevale), attaccava con le sue strofette vernacole, piene di umorismo e di saggio sarcasmo. E poi partiva il duello verbale tra tutti i Vigiòn ed il pubblico con i suoi applausi premiava i migliori.

Quindi iniziava la sfilata del corteo mascherato: sembrava un fiume mascherato, colorato, urtava contro i muri, si ingroppava, si fermava e poi tra nuovi e più numerosi lanci di proiettili, riprendeva la sua marcia folleggiante, mentre si alzavano grida, canti, suoni, schiamazzi. Sembrava che Piacenza fosse invasa da un popolo di pazzi, immigrato in città con il suo patrimonio di cose grottesche e che tutta la cittadinanza, festosamente, l’acclamasse con grida deliranti, interminabili. Era l’orgia, il delirio collettivo, il finimondo. Piazze, contrade, cantoni e vicoli, si riempivano di uno strato multicolore di coriandoli e stelle filanti. gruppomascherato-2

Tra le maschere figure caricaturali di magnati della società del tempo, i “dottori”, gli intellettuali romantici che il popolino a suo modo dileggiava, le cui nere tube e le redingote, erano bersaglio di arance sovente marce. Questi strani, saputi e bizzarri “dottori” erano gli antagonisti del rozzo Vigiòn. Mentre i primi si esprimevano in lingua dotta, intercalata da frasi in “latinorum”, il secondo “l’andava zu col brinòt”, ne diceva di cotte e di crude. Le loro dispute animatissime, frizzanti, fatte di salaci e pungenti botte e risposte, non erano sempre occasionali ma frutto di un copione scenico precedentemente concordato tra le parti, fra le risa spassose degli astanti che le ritenevano immediate, fresche, spontanee.

Le sfilate duravano ore ed ore, le differenze di classe si smussavano, svanivano in virtù dei rispettivi camuffamenti d’abiti e di costumi. Soltanto verso sera i carri si ritiravano per da luogo ad altri cortei notturni che procedevano al lume delle fiaccolate, delle lanterne. Seguiva l’afflusso massiccio ai grandi veglioni al Municipale ed al Politeama dove si eleggevano e premiavano con trofei e stendardi le migliori maschere, in primis la Regina dal Marcà (mercato). C’era sempre un premio assicurato anche per il Vigiòn.

Le prime luci dell’alba vedevano uomini mascherati trascinarsi esausti ed ebbri lungo i muri delle strade. Erano gli stremati superstiti di una generale pazzia su cui era calato il sipario. La carne aveva affogato nell’estasi e nell’orgia, la sua volontà di vivere, di godere e soprattutto di dimenticare l’imminente quotidianità.

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