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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I Malchiodi, quattro generazioni di “bianchei” con “pittoreschi” aiutanti: da “Vadobene a Baghèi”

Furono a conti fatti ben quattro le generazioni di imbiancatori-decoratori (bianchei), che costituirono la genealogia operativa della famiglia Malchiodi, popolarissima stirpe della zona di via Beverora

Furono a conti fatti ben quattro le generazioni di imbiancatori-decoratori (bianchei), che costituirono la genealogia operativa della famiglia Malchiodi, popolarissima stirpe della zona di via Beverora, generazioni che contraddistinsero, con la loro feconda operosità, questa borgata; erano compresi i parenti ortolani, proprietari di un grande orto e genitori dell’arcivescovo Umberto. Curiosa coincidenza: anche il Carlo Emilio Malchiodi-2Cardinale Alberoni fu figlio di ortolano in Cantone del Cristo…

Aver ricostruito per filo e per segno la cronistoria di questi popolarissimi artigiani della “pennellata” non era stata impresa semplice, ma servì a dare ulteriore impulso alla rievocazione popolaresca della rinomata borgata, perché la progenie stracittadina di questa famiglia andava a ritroso nel tempo, addirittura alla seconda metà dell’800.

Fu Gaetano Pantaleoni che nel 1951 afferrò quasi in extremis le testimonianze dirette dei due ormai anziani figli di quell’Edoardo, maestro imbiancatore che fu persino alle dipendenze del decoratore-pittore nonché litografo Karl Maier, ovvero Emilio e Carlo, più noti con l’appellativo confidenziale di “Duardèi”, diminutivo del nome paterno, ovvero il capostipite scomparso ottantenne nel 1915.

Edoardo collaborò poi con due imbiancatori svizzeri “piacentinizzati” e dal popolino contraddistinti rispettivamente come “Pedar” e “al pö bel di Pedar”, i quali annoverarono tra la loro clientela d’alto rango, persino Maria Luigia, granduchessa di Parma e Piacenza di cui furono noti i gusti squisitamente neoclassici anche in fatto di coloriture di ambienti e facciate delle sue residenze urbane e villerecce privilegianti le “mezzetinte” tenui, calde, intimistiche. La sua eredità fu dunque raccolta da Carlo ed Emilio e, dopo di loro, dai figli.

Nel loro racconto reso al cronista ricordavano che agli inizi del secolo e nei decenni successivi il mestiere non consisteva soltanto nel passare e ripassare sulle pareti, sui muri, sui soffitti, sulle facciate una tinteggiatura rosa, celeste o verdolina. Erano necessarie abilità speciali, gusto, sensibilità artistica, specie quando si dovevano colorare interni di salotti, chiese, palazzi, residenze di eletto rango nobiliare o borghese. Era insomma un mestiere tutt’altro che disimpegnato sotto il profilo della qualità, richiedendo anche doti di esperto decoratore, specie nei casi in cui si dovevano apportare rifiniture, ritocchi, addirittura restauri a comparti ornamentali d’epoca. Era inoltre attività onerosa, spossante.

via Beverora-5

I due “Duardèi” ricordavano quando erano chiamati a prestare la loro opera in remote località del circondario rurale, trainando a mano il traballante carretto stracarico dell’occorrente: recipienti dei colori, pennelli di varie fogge e dimensioni, numerosi attrezzi ed apparecchiature sussidiarie.

Da ragazzi lavoravano nella bottega del padre Edoardo che nel frattempo si era staccato da quella dei due svizzeri; ricordavano quanta fatica costasse macinare con apposite pietre abrasive le dure terre di Verona. Spesso si dovevano imbiancare e ritinteggiare centinaia di metri quadrati di muri e pareti, volte di soffitti, arcate di portali e loggiati.

Nella loro bottega affluirono collaboratori ed aiutanti di “tutti i colori” umani e psicologici, come per esempio “‘l Becco” dal volto grifagno che ne combinò “più che Bertoldo in Francia” e che proprio in Francia dovette fuggire per poi ritornare alla corvèè dell’imbiancatura finendo i suoi giorni al ricovero Maruffi.

C’era poi ‘l Nȏnsi, un tipico bonario, servizievole, in odor di sacrestia che quell’epiteto si era meritato perché alternava al mestiere di “bianchei”, quello di aiuto scaccino in S. Brigida; ed ancora: al “Matt”, figura classica di mingherlino dotato però di rara prestanza e vigore fisico che per vie poco ortodosse si arruolò in un corpo di “arditi” volontari in Africa per combattere i guerriglieri del Fezan libico, al comando del generale Graziani.

Via Beverora-5

Fra questi aiutanti un ruolo anomalo rivestì anche “Vadobene”, personaggio emergente di Cantarana. Una notazione di “bozzetto macchiaiolo” di Umberto Rebecchi (la cui figura di poeta e uomo di cultura esamineremo) così lo tratteggiava:

” Bonaria pasta d’uomo, ilare ed ameno, non ne imbroccava mai una giusta; la sua visione della realtà quotidiana era sempre fuori squadra, sbilenca come i suoi passi. Infatti quel soprannome glielo avevano appioppato in ragione dell’andatura goffa, simile a quella che adotta l’ortolano costretto a procedere tra i solchi stretti, posando un piede davanti all’altro, tenendo le punte in convergenza per non calpestare gli ortaggi che tracimano ai bordi delle aiuole”. Quale soprannome più azzeccato poteva forgiare l’arguta fantasia popolaresca se non quella appunto di “Vadobene”?

E per ultimo abbiamo tenuto quello più spassoso, ovvero “Baghèi”, autentica “macchietta” d’altri tempi. Baghèi fu a Piacenza ciò che fu Pasquino a Roma al tempo del Belli, “la bocca della verità”. Lo stesso Faustini del resto degnò questo emblematico personaggio di una citazione in una sua poesia. Solo che lui entrava in funzione solo dopo avere tracannato una super dose.

Gli occhi si lustravano come sfere fosforescenti ed i gesti diventavano come quelli adottati nei comizi, larghi e frenetici. Aveva i suoi punti d’azione negli angoli delle strade, ai crocevia, nelle piazzole, sotto i portici del centro. Stava lì, sostava a concionare, recriminare, ammonire i passanti i quali formavano capannelli attorno a lui, divertendosi un mondo, specie quando gli sfuggivano frasi o parole proibite dal galateo, il tutto naturalmente in vernacolo.

Bersaglio ossessivo delle sue invettive erano le guardie regie, gli “sbirri” nei cui confronti nutriva un astio irrefrenabile, cagionato da chissà quali motivi personali o collettivi. Naturalmente i suoi “oltraggi “sistematici, anche su fatti di cronaca nera non restavano impuniti e Baghèi veniva regolarmente tradotto in guardina a smaltire la sbornia sul tavolaccio uscendone dopo essersi buscato la consueta “mano di bianco”, com’era d’uso in quei tempi. E poi, anche se un po’ pesto, riprendeva il suo lavoro di “semi-solerte aiuto “bianchei”. Piacenza d’altri tempi…

I Malchiodi, quattro generazioni di “bianchei” con “pittoreschi” aiutanti: da “Vadobene a Baghèi”

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