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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I “molinari de Pado”, tradizioni storiche del Piacentino

Dell’esistenza di mulini installati nella nostra plaga fluviale si conservano interessanti, seppur frammentarie, notizie di antica tradizione storica in documenti custoditi presso l’Archivio di Stato

Dell’esistenza di mulini installati nella nostra plaga fluviale si conservano interessanti, seppur frammentarie, notizie di antica tradizione storica in documenti custoditi presso l’Archivio di Stato. Esse si riferiscono specificatamente alle normative contenute negli statuti di categoria corporativa, i famosi “Paratici dei mugnai” o “molinari de Pado” operanti fin dall’epoca dei Comuni medioevali nello scacchiere a monte ed a valle del prestigioso “portus placentinus” fra le due sponde emiliana e lombarda.

Nel pregevole saggio del prof. Pietro Castignoli, per oltre trent’anni direttore dell’Archivio di Stato di Piacenza, denominato “La navigazione fluviale a Piacenza” del 1965, si apprende, tra l’altro, che nella seconda metà del ‘700, i mulini installati nella “Longa del Po” erano più di un centinaio con relative strutture palafitticole situate in prossimità delle sponde, sui rivieraschi compresi fra Pieve Porto Morone e Monticelli d’Ongina. Resta ancora da appurare se in epoca moderna, all’incirca tra XVVII° e XVVIII° secolo, fossero già in funzione i primi mulini natanti. Si tratta però di un’ipotesi poco consistente sul piano pratico, vista la copiosità degli impianti molitori stabilmente insediati ed attivi nel tratto padano da essi egemonizzato in base a rigorosi termini statutari.

Più plausibile appare invece la supposizione che i mulini natanti iniziassero la loro attività erratica nella seconda metà dell’800, contemporaneamente al declino ed alla graduale scomparsa degli impianti stabili causata dalle vicende alluvionali del fiume (le grandi inondazioni, i disastrosi straripamenti registrati dagli annali storici) che sconvolsero quasi radicalmente la fisionomia idrogeografica della millenaria via d’acqua rendendo così, di tempo in tempo,sempre più ardua e precaria l’attività delle attrezzature palafitticole dei mulini, soprattutto in seguito alla catastrofica alluvione del 1839 ed altre successive, non meno rovinose e travolgenti, tra cui quella del 27 ottobre del 1907; evento, quest’ultimo di macroscopica portata devastatrice che inferse il colpo di grazia mortale ai superstiti impianti molitori radicati alle falde di sponda.

ponti sul Po-2

Secondo diverse testimonianze orali di anziani, due mulini a struttura palafitticola risultavano installati sul tratto di sponda lombarda, fra Chignolo Po e Corte S. Andrea, negli anni del primo dopoguerra. Tale testimonianza provenne dal “fiumarolo di lungo corso” Mario Pantaleoni il cui padre, detto “al Nìn”, gli riferì diverse volte, quando era ragazzo, di essersi spinto in più occasioni con la barca a pescare in quella zona lombarda dei mulini situati sulla piarda, di proprietà delle sorelle Gabbiani.

Notizie anch’esse nebulose si hanno di vecchi mulini insediati nel tratto fluviale fra Boscone di Calendasco ed Arena Po; informazioni da appurare tramite apposite ricerche da condurre negli Archivi di Stato dei territori coinvolti o da fonti archivistiche dei Comuni rivieraschi dei confini provinciali, specie, in quelli dell’Oltrepò pavese.

Nella sua ricca monografia (Il folclore piacentino edito da Utep nel 1971) Carmen Artocchini riferisce che un impianto molitorio, forse di struttura palafitticola, era insediato sul lembo fluviale della Bassa piacentina nel comprensorio di Monticelli d’Ongina, denominato “Molinazza garibaldina”. Annotava al riguardo l’Artocchini:

”La Molinazza fu demolita verso il 1885-1890 come riferì a suo tempo mons. Giovanni Allegri parroco di Castelvetro che possedeva anche un “Franklin” (stufa di terracotta) in cui i mugnai per scaldarsi bruciavano legna che andavano a raccogliere nei boschi lungo il fiume”.

La Gazzetta di Parma del 6 agosto 1982 aveva pubblicato un’interessante rievocazione dei molini natanti attivi nella plaga padana di confine fra le province di Parma e Cremona corredandole di fotografie d’epoca. Tale rievocazione erano dovute alle ricerche svolte con scrupolo appassionato da don Enrico Dall’Olio parroco di Lesignano Bagni; si basava sul fatto che durante alcuni periodi di grande secca del Po erano riemersi dai fondali del tratto parmense, all’altezza del bosco di Coltaro (fra Sissa e Polesine), due relitti di barconi appaiati lunghi 22 metri, costruiti con assi di rovere tenute insieme da grossi chiodi a doppia punta, battuti e filettati a mano. L’ipotesi che si trattasse di due “sandoni” di mulini natanti appare abbastanza verosimile.

mulini Po-3

Come s’è constatato dalla descrizione che ne fece l’ing. Piola (1° puntata) nel 1908, fra i due scafi era sistemata la ruota che sfruttando l’energia della corrente, azionava la macina collocata sul ponte, in prossimità del robusto capanno di legno del mulinaio, mentre le stive fungevano da magazzino per il grana da macinare. La farina veniva quindi insaccata e custodita in uno speciale spazio-ripostiglio dello stesso capanno.

Come facevano i mulini a spostarsi e risalire la corrente, non essendo dotati di motori? Si servivano dei cavalli che con apposite funi li trainavano arrancando sulle piarde; un faticosissimo maneggio visto il peso e l’ingombro. Ma in quei tempi di diffuse carestie i sudori “biblici” per uomini ed animali erano ordinaria amministrazione operativa. All’epoca dei mulini natanti insomma il pane era veramente un bene assai prezioso che costava cospicua fatica.

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